È
una domenica di fine febbraio. Il sole, pallido d’alba e tiepido di
un inverno che scimmiotta l’autunno, penetra a malapena tra le
finestre socchiuse. Il vento di scirocco titilla sulle imposte e
genera un frastuono intermittente, che non ha alcunché di melodioso.
Percepisco in lontananza il latrato randagio che rimbalza tra le
montagne del Matese e riconosco il passo delicato della più
mattiniera zampetta di quartiere, a cui fa da contrappunto il greve
rumore di una suola umana che schiaffeggia due capienti pozzanghere.
Casa mia è ancora spenta.
Il padrone, stanco dopo un sabato in cui
si è illuso di essere ancora un giovane ai primi calici, è così
ben compresso tra le coperte e il materasso che sembra la senape in
un hot dog a cinque strati di condimento. Non avrei alcuna
possibilità di uscire adesso. Abbaiate vigorose e guaiti commoventi
si dimostrerebbero vane speranze di scuotere quella maschera, barbuta
e russante, che si culla tra le braccia di Morfeo. Poco male.
Nonostante sia un cane nato tra le nebbie delle infinite pianure del
Nord della Bretagna, un ruspante pastore che solo una Regina è stata
capace di trasformare in elegante custode di umane greggi, un bonsai
che si vede sequoia, un cavaliere wooooooffante che brama di stare
all’aria aperta, rimanere qui a sonnecchiare, mentre il ticchettio
di un rovescio improvviso di pioggia si unisce e mischia al suono del
Maestrale, è delizioso. Penso che nemmeno Robin Hood che bussa alla
porta con un sacco pieno di salsicce potrebbe farmi cambiare idea.
Cosa desiderare di più, del resto? La stanza è calda, la ciotola
d’acqua è piena, poggio la pancia su una coperta a fantasia
“principe di Galles”, l’unica che si addice alle mie nobili
origini.
E c’è un finto padrone, seppur dormiente. Anche un umano
che si crogiola nel dolce far nulla è per noi, esseri fedeli,
compagnia: basta il privilegio di acquattarsi in un angusto spazio
della sua stanza per farci sorridere alla vita. In questo dormiveglia
leggero, la mente vaga tra pensieri che non hanno alcuna capacità di
collegarsi; lo sguardo punta la parete ove è appeso il calendario
Corgi 2016. Vedo che oggi è 28. Ho un sussulto: esattamente due anni
fa, entravo per la prima volta dentro queste quattro mura tappezzate
di mensole, gadget e libri. È d’ uopo, allora, poggiare i pensieri
frastagliati del primo risveglio sul comodino e aprire il cassetto
dei ricordi. Il 28 febbraio 2014 era venerdì. All’ora del tè, in
quel di Benevento, il padrone mi prese in braccio per la prima volta,
io leccai la sua faccia. Fatto muso a muso con mamma Flavia, salutato
cordialmente i colleghi di razza e gli zii umani, venni messo a
fatica nel trasportino. I primi wooooooooooooooffaggi di un animale
viziato e lamentoso li regalai proprio lì dentro.
Oh quanto odiai
quel viaggio fino al Molise, dentro una scatola maleodorante di
plastica e con le grate da carcerato. Non ho voluto entrarci mai più.
Qualche giorno dopo, il padrone provò a infilarmici di nuovo, per
condurmi dal veterinario. Non ci riuscì: appena mi prese in braccio,
sgattaiolai come una talpa e finsi un pianto drammatico, che commosse
anche la madre. Non sono state le uniche lacrime della fanciullezza,
ahimè. Fin quasi al Natale del 2014, mi sono continuamente
lamentato per colpa di un’intensa
otite, presa un bel po’ sottozampa. Il Luppolo camminava con
la testa piegata, schivava gli spassi della fanciullezza, non si
entusiasmava nella comunella con i giovani colleghi. Grazie a Lassie,
una cura adeguata mi ha rimesso al mondo e una nuova vita di
avventure con il mio assistente è cominciata. Le orecchie, però,
sono rimaste la mia zampa d’achille. Nessun franco tiratore, sotto
forma di veterinario o di tolettatrice - oh che scempio finire
in una vasca di metallo e essere pettinato come l’ultimo dei
barboncini – può sfiorare il simulacro delle mie sofferenze
passate, altrimenti lancio un grido in falsetto che, al confronto,
Bonovox che duetta con Frank Sinatra in “I have got you under
my skin” pare un suonatore di piattini.
Anche i rumori cupi e
improvvisi mi intorpidiscono l’animo: se dei cacciatori impallinano
volatili a un tiro di schioppo dalla città, oppure “mastridifesta”
delle feste patronali scatenano, al passaggio della statua del Santo,
un concerto di bombe carta, metto la coda tra le gambe. Sono
proprio un paurosone, lo ammetto. Proprio ieri me la stavo facendo
sotto. Erano le quindici, passeggiavo e guardavo il padrone, in
attesa che declamasse la più dolce delle poesie, l’unica vera cura
per le mie lunghe e setose orecchie <<eh Luppolo, giochiamo un
po’?>>. Quando la odo, le zampe corrono come nuvole fino a un
amplio spazio di erba alta e selvatica, che un tempo faceva da campo
di calcetto del quartiere. Lì, il padrone mi toglie il guinzaglio e
scaglia una palla da tennis il più lontano possibile. Io la riporto
solo se mi va: restituire oggetti è un lavoro per cani da salotto,
non per pastori.
Altrimenti, pur apprezzando il lancio, vado a zonzo.
Ieri, su quel rettangolo malmesso di natura, c’erano due
giovanotti. Armeggiavano con un telecomando e spostavano, qua e là,
un oggetto simile a un grande gabbiano. Improvvisamente, uno dei due
ha spinto una leva che ha fatto roteare delle eliche. Un attimo dopo,
un infernale rombo ha scosso la quiete cittadina, due vecchiette
hanno fatto testamento, gli stormi di rondini hanno ripreso la via di
Ebbaken. Quando, infine, l’alcione dalle ali di metallo si è
librato in cielo, con assoluta dignità, ho mollato la palla a terra,
assunto i panni di un levriero afghano e sono scappato verso casa,
vanamente inseguito e minacciato dal padrone. Ancora scosso
dall’evento, è stato duro convincermi a uscire. Ieri sera,
pezzetti di salsiccia sono stati le mie molliche di Pollicino fino
all’ uscio di casa. Stamane, però, la paura è svanita. Non dura
mai molto. È un intervallo crepuscolare in un tempo che, per la mia
pelosa persona, splende di sole anche quando il vento sibila e
fischia come una locomotiva a vapore sulla tratta Napoli – Portici
nel 1839 e la pioggia picchia duro sul dorso, annerisce le zampe,
inzuppa la testa e mi fa diventare spugnoso come un Mocio Vileda.
Non
potrebbe essere altrimenti: sconfitto il malanno di cui poc’anzi
narrai, ho recuperato la vitalità, l’allegria, la gioia anarchica
d’affetto che contraddistingue ogni bravo cane. Del secondo anno in
casa, che oggi si conclude, ho solo piacevoli ricordi di gite fuori
porta, di bagni di sole, di capriole nella neve, di corse sfrenate in
campagna, di tuffi nelle fresche e non proprio incontaminate acque
del Volturno, di escursioni in montagna, di tafferugli con cani
maschi, di corteggiamenti falliti con le sciantose del quartiere.
Quante ne ho già raccontate, quante potrei raccontarne, quante ne
racconterò ancora. Ma stamane non c’è più tempo. Dormicchiando
dormicchiando, rammentando rammentando, si sono fatte le otto. Sto
bene qui, stravaccato con le zampe a quattro di spade, ma ora non
riesco più a trattenere i bisognini. La pioggia mi pare meno
martellante di prima, il mite e dolce libeccio ha scansato un
prepotente maestrale, quell’abbaiata lontana e stridula chissà se
è della mia amata bassottina Lucy o dell’amicone di sempre Tommy.
Orsù, padrone, destati, altrimenti non solo mi arrampico sul letto e
wooooooooooooffo, ma ti imprimo sulla faccia una slinguazzata che
risolve il problema pulizia della faccia senza passare per il lavabo.
Dai, vesti la giubba, prendi il guinzaglio e andiam, andiam, andiamo
a camminar la la la la la la la la laaaaa, per prati ancora umidi,
per viali che non hanno dovuto vendere il verde all’inverno, per le
campagne che stanno ritrovando, in anticipo rispetto al solito, il
bianco del mandorlo e della magnolia, l’arancio dell’albicocco,
il rosa del pesco. Sempre se, gentile segretario che scrivi in nome e
per conto mio, sono quelli gli alberi che vediamo. Tu puoi provare a
fare il romantico, non certo il botanico. Finita questa breve
polemica tra me e il sottoscritto, godiamoci questa passeggiata
insieme, dai, facciamo pure una corsetta dove ieri osavano i droni.
Non fa niente se non hai la palla, tanto non la riporto. Bene, dopo
tanto marciare, sono pronto per rincasare. Un lauto pranzo è stato
indetto in mio onore. Gentilmente, egregio, comunica agli astanti che
oggi faccio due anni in casa. È festa, si celebrano i Luppondiali.
Un antipasto di formaggi, s’il vous plaît. Ah non me
lo vuoi dare? Beh, forse non vuoi farmi appesantire, altrimenti non
mangio il resto. Che languore tra i miei pensieri. Quante
prelibatezze mi aspettano.
La nonna si è data da fare. Dai, a
tavola. Oh come sguazzano quei cavatelli nel ragù. Due a me
woooooooooooooof. Macchè. Ehi papà, guarda, un pollo. E pure le
patate. A me un po’ di coscia, dai. Oh oh, sto parlando con voi.
Wooooooof woooooooooof woooooooooof. Brava madre, che mi passi una
patatina di sottecchi. Ecco, arriva il dolce. Dai, la crosta del
cannolo. Non ha zuccheri e mi manderebbe in brodo di giuggiole.
Purtroppo, è un sogno. Meglio tornare a dormire, va’. Da due anni
è sempre la stessa storia, a ora di pranzo. E non è una bella
storia da raccontare. L’unica, per fortuna.
Carmine Tedeschi
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