sabato 5 marzo 2016

"LA SETTIMANA INCORG": I Luppondiali affamati.

È una domenica di fine febbraio. Il sole, pallido d’alba e tiepido di un inverno che scimmiotta l’autunno, penetra a malapena tra le finestre socchiuse. Il vento di scirocco titilla sulle imposte e genera un frastuono intermittente, che non ha alcunché di melodioso. Percepisco in lontananza il latrato randagio che rimbalza tra le montagne del Matese e riconosco il passo delicato della più mattiniera zampetta di quartiere, a cui fa da contrappunto il greve rumore di una suola umana che schiaffeggia due capienti pozzanghere. Casa mia è ancora spenta.
Il padrone, stanco dopo un sabato in cui si è illuso di essere ancora un giovane ai primi calici, è così ben compresso tra le coperte e il materasso che sembra la senape in un hot dog a cinque strati di condimento. Non avrei alcuna possibilità di uscire adesso. Abbaiate vigorose e guaiti commoventi si dimostrerebbero vane speranze di scuotere quella maschera, barbuta e russante, che si culla tra le braccia di Morfeo. Poco male. Nonostante sia un cane nato tra le nebbie delle infinite pianure del Nord della Bretagna, un ruspante pastore che solo una Regina è stata capace di trasformare in elegante custode di umane greggi, un bonsai che si vede sequoia, un cavaliere wooooooffante che brama di stare all’aria aperta, rimanere qui a sonnecchiare, mentre il ticchettio di un rovescio improvviso di pioggia si unisce e mischia al suono del Maestrale, è delizioso. Penso che nemmeno Robin Hood che bussa alla porta con un sacco pieno di salsicce potrebbe farmi cambiare idea. Cosa desiderare di più, del resto? La stanza è calda, la ciotola d’acqua è piena, poggio la pancia su una coperta a fantasia “principe di Galles”, l’unica che si addice alle mie nobili origini.
E c’è un finto padrone, seppur dormiente. Anche un umano che si crogiola nel dolce far nulla è per noi, esseri fedeli, compagnia: basta il privilegio di acquattarsi in un angusto spazio della sua stanza per farci sorridere alla vita. In questo dormiveglia leggero, la mente vaga tra pensieri che non hanno alcuna capacità di collegarsi; lo sguardo punta la parete ove è appeso il calendario Corgi 2016. Vedo che oggi è 28. Ho un sussulto: esattamente due anni fa, entravo per la prima volta dentro queste quattro mura tappezzate di mensole, gadget e libri. È d’ uopo, allora, poggiare i pensieri frastagliati del primo risveglio sul comodino e aprire il cassetto dei ricordi. Il 28 febbraio 2014 era venerdì. All’ora del tè, in quel di Benevento, il padrone mi prese in braccio per la prima volta, io leccai la sua faccia. Fatto muso a muso con mamma Flavia, salutato cordialmente i colleghi di razza e gli zii umani, venni messo a fatica nel trasportino. I primi wooooooooooooooffaggi di un animale viziato e lamentoso li regalai proprio lì dentro.
Oh quanto odiai quel viaggio fino al Molise, dentro una scatola maleodorante di plastica e con le grate da carcerato. Non ho voluto entrarci mai più. Qualche giorno dopo, il padrone provò a infilarmici di nuovo, per condurmi dal veterinario. Non ci riuscì: appena mi prese in braccio, sgattaiolai come una talpa e finsi un pianto drammatico, che commosse anche la madre. Non sono state le uniche lacrime della fanciullezza, ahimè.  Fin quasi al Natale del 2014, mi sono continuamente lamentato per colpa di un’intensa otite, presa un bel po’ sottozampa. Il Luppolo camminava con la testa piegata, schivava gli spassi della fanciullezza, non si entusiasmava nella comunella con i giovani colleghi. Grazie a Lassie, una cura adeguata mi ha rimesso al mondo e una nuova vita di avventure con il mio assistente è cominciata. Le orecchie, però, sono rimaste la mia zampa d’achille. Nessun franco tiratore, sotto forma di veterinario o di tolettatrice - oh che scempio finire in una vasca di metallo e essere pettinato come l’ultimo dei barboncini – può sfiorare il simulacro delle mie sofferenze passate, altrimenti lancio un grido in falsetto che, al confronto, Bonovox che duetta con Frank Sinatra in “I have got you under my skin” pare un suonatore di piattini.
Anche i rumori cupi e improvvisi mi intorpidiscono l’animo: se dei cacciatori impallinano volatili a un tiro di schioppo dalla città, oppure “mastridifesta” delle feste patronali scatenano, al passaggio della statua del Santo, un concerto di bombe carta, metto la coda tra le gambe.  Sono proprio un paurosone, lo ammetto. Proprio ieri me la stavo facendo sotto. Erano le quindici, passeggiavo e guardavo il padrone, in attesa che declamasse la più dolce delle poesie, l’unica vera cura per le mie lunghe e setose orecchie <<eh Luppolo, giochiamo un po’?>>. Quando la odo, le zampe corrono come nuvole fino a un amplio spazio di erba alta e selvatica, che un tempo faceva da campo di calcetto del quartiere. Lì, il padrone mi toglie il guinzaglio e scaglia una palla da tennis il più lontano possibile. Io la riporto solo se mi va: restituire oggetti è un lavoro per cani da salotto, non per pastori.
Altrimenti, pur apprezzando il lancio, vado a zonzo. Ieri, su quel rettangolo malmesso di natura, c’erano due giovanotti. Armeggiavano con un telecomando e spostavano, qua e là, un oggetto simile a un grande gabbiano. Improvvisamente, uno dei due ha spinto una leva che ha fatto roteare delle eliche. Un attimo dopo, un infernale rombo ha scosso la quiete cittadina, due vecchiette hanno fatto testamento, gli stormi di rondini hanno ripreso la via di Ebbaken. Quando, infine, l’alcione dalle ali di metallo si è librato in cielo, con assoluta dignità, ho mollato la palla a terra, assunto i panni di un levriero afghano e sono scappato verso casa, vanamente inseguito e minacciato dal padrone. Ancora scosso dall’evento, è stato duro convincermi a uscire. Ieri sera, pezzetti di salsiccia sono stati le mie molliche di Pollicino fino all’ uscio di casa. Stamane, però, la paura è svanita. Non dura mai molto. È un intervallo crepuscolare in un tempo che, per la mia pelosa persona, splende di sole anche quando il vento sibila e fischia come una locomotiva a vapore sulla tratta Napoli – Portici nel 1839 e la pioggia picchia duro sul dorso, annerisce le zampe, inzuppa la testa e mi fa diventare spugnoso come un Mocio Vileda.
Non potrebbe essere altrimenti: sconfitto il malanno di cui poc’anzi narrai, ho recuperato la vitalità, l’allegria, la gioia anarchica d’affetto che contraddistingue ogni bravo cane. Del secondo anno in casa, che oggi si conclude, ho solo piacevoli ricordi di gite fuori porta, di bagni di sole, di capriole nella neve, di corse sfrenate in campagna, di tuffi nelle fresche e non proprio incontaminate acque del Volturno, di escursioni in montagna, di tafferugli con cani maschi, di corteggiamenti falliti con le sciantose del quartiere. Quante ne ho già raccontate, quante potrei raccontarne, quante ne racconterò ancora. Ma stamane non c’è più tempo. Dormicchiando dormicchiando, rammentando rammentando, si sono fatte le otto. Sto bene qui, stravaccato con le zampe a quattro di spade, ma ora non riesco più a trattenere i bisognini. La pioggia mi pare meno martellante di prima, il mite e dolce libeccio ha scansato un prepotente maestrale, quell’abbaiata lontana e stridula chissà se è della mia amata bassottina Lucy o dell’amicone di sempre Tommy. Orsù, padrone, destati, altrimenti non solo mi arrampico sul letto e wooooooooooooffo, ma ti imprimo sulla faccia una slinguazzata che risolve il problema pulizia della faccia senza passare per il lavabo.
Dai, vesti la giubba, prendi il guinzaglio e andiam, andiam, andiamo a camminar la la la la la la la la laaaaa, per prati ancora umidi, per viali che non hanno dovuto vendere il verde all’inverno, per le campagne che stanno ritrovando, in anticipo rispetto al solito, il bianco del mandorlo e della magnolia, l’arancio dell’albicocco, il rosa del pesco. Sempre se, gentile segretario che scrivi in nome e per conto mio, sono quelli gli alberi che vediamo. Tu puoi provare a fare il romantico, non certo il botanico. Finita questa breve polemica tra me e il sottoscritto, godiamoci questa passeggiata insieme, dai, facciamo pure una corsetta dove ieri osavano i droni. Non fa niente se non hai la palla, tanto non la riporto. Bene, dopo tanto marciare, sono pronto per rincasare. Un lauto pranzo è stato indetto in mio onore. Gentilmente, egregio, comunica agli astanti che oggi faccio due anni in casa. È festa, si celebrano i Luppondiali. Un antipasto di   formaggi, s’il vous plaît. Ah non me lo vuoi dare? Beh, forse non vuoi farmi appesantire, altrimenti non mangio il resto. Che languore tra i miei pensieri. Quante prelibatezze mi aspettano.
La nonna si è data da fare. Dai, a tavola. Oh come sguazzano quei cavatelli nel ragù. Due a me woooooooooooooof. Macchè. Ehi papà, guarda, un pollo. E pure le patate. A me un po’ di coscia, dai. Oh oh, sto parlando con voi. Wooooooof woooooooooof woooooooooof. Brava madre, che mi passi una patatina di sottecchi. Ecco, arriva il dolce. Dai, la crosta del cannolo. Non ha zuccheri e mi manderebbe in brodo di giuggiole. Purtroppo, è un sogno. Meglio tornare a dormire, va’. Da due anni è sempre la stessa storia, a ora di pranzo. E non è una bella storia da raccontare. L’unica, per fortuna.

Carmine Tedeschi   

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