Sono
un grande cane in una piccola scatola di peli, un instancabile
custode delle greggi, un “peloso di fatica”. Non sono nato per
ronfare. Devo stare perennemente sul chi va là, darmi da fare. Nelle
ore di sole, sono come un leone della savana: non dormo mai; al
massimo, riposo.
Alla sera, solo se ho prodotto, se ho reso un
servizio alla comunità, solo se le gambe e la mente dolgono di
lassezza emotiva e fisica, posso dormire il sonno dei giusti, di chi
non è stato lavativo, di chi si è meritato la pagnotta e le
crocchette. Capirete bene, quindi, che vado in brodo di giuggiole se,
al vespro di queste giornate primavera, l’umano mi chiama a sé.
Prendo a correre all’impazzata, circumnavigo a siderale velocità
il tavolo del salone, il fragore dell’abbaiata solletica
l’attenzione dei colleghi di quartiere, mi getto sul guinzaglio
come l’ubriacone sul primo calice di cervogia dell’addio al
celibato, irrompo in strada con la stessa passione con la quale la
vamp sessantacinquenne scende in pista all’udire delle prime note
dell’alligalli alligàààààààààààààààà, suonate
dall’orchestra nuziale. E attendo che una palla venga scagliata
nel tunnel dei garage o che quattro zampe e due piedi marcino
all’unisono verso il portone dell’ amata Lucy. Invece, vengo
cortesemente invitato a salire in macchina. Obbedisco in parte. La
spinta verso il sedile deve darmela l’umano. Hanno detto che i cani
con l’assetto ribassato non possono sforzare troppo la schiena e io
mi adeguo. Attraverso vie trafficate come metropoli del Pakistan,
arrivo in periferia. Scendo. Scorgo una salita dolce, da percorrere
su un marciapiede che solca una distesa di alberi rigogliosi e dalla
punta aguzza.
È il primo tratto di una strada lunga 3 km, zeppa di
curve, erte moderate, planate leggere, rettilinei di ville imponenti
e casupole fatiscenti, ubertose campagne e distese ghiaiose, che,
dagli ultimi spiccioli della città, conduce a un conetto di case
antiche, residenti sulla sommità di una collina. Il padrone mi
invita ad affrontarlo di slancio: oltre la linea del visibile, una
fontanella di pietra garantirà un fresco ristoro. Purtroppo per lui,
io sono un solerte pastore. E, come tale, devo monitorare tutto ciò
che solletica la mia attenzione e lasciare alle generazioni future
tracce del passaggio su ogni anfratto del globo terracqueo. Così,
odoro minuziosamente il territorio, scavo, sollevo la zampa
posteriore e inumidisco del mio odore le erbacce, inseguo canesse
come fossero le uniche rimaste sulla terra dopo il più micidiale dei
cataclismi, metto in riga i maschietti che osano avanzare un’istanza
di sodalizio o, ancor peggio, sfidarmi a duello. L’umano si
spazientisce. <<non è che devi odorare ogni centimetro della
città!>>, esclama. E mi trascina sul ciottolato. Inutilmente.
Un nuovo odore mi attira nel verde. Ci metto 15 minuti per fare un
chilometro, fino allo zampillo d’acqua. Vi arrivo che ho la lingua
di fuori. Sorseggio e riprendo fiato. Tre donne, di età stimabile
tra i 92 e i 93 anni, chiome vaporose e di un grigio che luccica su
occhi chiari e pelli di crema, vestite di colori pastello, agghindate
con gioielli per facoltosi e borse di pregiata manifattura, munite di
una savoir faire da belle epoque, mi passano accanto. Lo scorso anno
erano in cinque. Hanno l’alfabeto moscio, la parlantina forbita,
l’orgoglio di chi affronta la scure ineluttabile del tempo
sorridendo all’oggi e sfidando il domani con eleganza, la memoria
appena vacillante dentro una mente sufficientemente lucida. <<oh
eccolo qua il più bel sgiovanotto. Finalmente sci rivediamo>>,
farfugliano in coro. <<veramente, sci siamo visti già ieri,
Signò>>, penso, mentre la loro leader ideologica
prosegue:<<da
dove vieni, sgiovanotto?>>. Il padrone informa, una delle tre
si commuove al ricordo dell’anno domini 1972, o giù di lì, quando
varcò Calais e sbarcò in terra di Albione, assieme a quel
“pigraccio insolente dello mio marito” che oggi l’accompagna
soltanto in Chiesa, alla messa delle 7. Sento la sua mano legnosa
tremare di emozione più delle altre, mentre accarezza la mia
schiena. Lascio fare, fino a che non passa canessa da conoscere. Le
modalità annusatorie di approccio sconcertano un po’ le signore,
che accennano un “oh oh oh” di imbarazzo, prima di osservare:<<ah
sgiovanotto, ma sei proprio un birbantello tu>> e andare via,
dandomi appuntamento a presto, a un altro giorno in cui, non dubito,
chiederanno lumi sulle mie origini. Anche la donzella non resta molto
con me. Il suo dominus la trascina lontano. All’orizzonte, resta un
viale di pini. Ho voglia di tornare indietro.
Insceno un sit-in
solitario di protesta. Non serve. Capisco che tocca avanzare. Il
padrone apprezza lo zelo. Si complimenta, dice “bravo” e allunga
qualcosina da sgranocchiare. Grave errore. Dovete sapere che tra me e
lui ci sono dei problemi atavici di comunicazione. In più di due
anni, mi ha insegnato solo i rudimenti del comando. Il “seduto”
lo faccio perché è facile, il “fermo” va a giorni alterni, il
“vieni” è concesso solo se ritmato in un crescendo rossiniano di
“vieni vieni vieni vieni vieni” che si conclude con una
prelibatezza di primo taglio. Della parola 'bravo' non so il
significato, né lo collego a una azione meritevole, a differenza
della ripresa del cammino, che associo a vivande. Così, ogni cinque
metri, stramazzo, risorgo e contemplo l'umana mano, in attesa che
molli un biscottino o un pezzetto di mela. Non succede. Il teatrino
finisce all’imbocco di un falsopiano. È il tratto maggiormente
frequentato dagli sportivi. Donne magre come una quaresima, dalle
linee affusolate e dai vestitini avvolgenti, volano a passo leggiadro
sul marciapiede in pavè e i
vecchietti delle panchine, curvi sui
loro bastoni, voltano lo sguardo e sospirano al ricordo del tempo in
cui erano giovani e virili. Grondano sudore uomini agghindati con
divise sgargianti, attillate, di tecnico tessuto, stirate come frac
di cerimonia e le generazioni di mezzo scuotono la testa, pensando a
quando lo sport si praticava con gli abiti più fuori taglia, sporchi
e lacerati che si possedevano, con la sola eccezione della Lacoste di
colore blu, rigorosamente stinta, in caso di donna come compagna di
attività. Una famigliola si tiene per mano, il passeggino arranca,
lo scolaretto corre, la bimba accelera sul triciclo, l’uomo
raccoglie un ciclamino e omaggia la sua bella. Manca solo un
cagnolino per dipingere un quadro domestico impeccabile. I genitori
si impegnano, comunque, a insegnare alla prole l’amore per gli
animali. <<accareSSa>>, invita la madre, mentre mostra
alla figlia come si coccola una stufetta del gas in salsa Corgi.
<<accareSSa, dai>>, seguita cuore di padre e, con
decisione, tende la pargoletta mano, assieme alla sua, sulla mia
groppa. <<accareSSa ‘sto casso di cane, ya>>, pensa il
padrone: tra mie soste svogliate e incontri inattesi ha percorso poco
meno di 2 km in 43 minuti e ha perso le calorie di una
galletta di
riso integrale. La bimba risponde picche e lacrime, come ogni dì. E’
quasi sera. Un biscottino al latte mi dà la carica per le ultime,
erculee fatiche, in vista del Gran Premio della Montagna. Il clima
comincia a farsi frizzante, viene voglia di fasciarsi di un velo di
lana e cotone. La città è lontana, si stende su un tappeto di neon
e lampioni per dare il benvenuto alle stelle. Le macchine sfrecciano
di conducenti che vogliono concludere la loro corsa nell’abbraccio
di una cena d’affetti o nella solitudine di un paio di ciabatte, di
un televisore, di una connessione veloce, di un divano. Il melodioso
cinguettio dei passerotti e delle allodole lascia il posto al verso
grave degli assioli e dei barbagianni, i fuochi artificiali di
qualche Santo deflagrano nel ciel sidereo e trasformano la quiete
muta ed errabonda dei randagi in un latrato frenetico alla luna.
Abbaia senza soste, e tossisce di raucedine, anche il cotonato
bastardino di un giardino accanto al quale mi è vietato sostare. Si
racconta che i suoi padroni accusino i passanti, di guinzaglio
muniti, di stimolare la sua bestiola ad abbaiare, con conseguente,
irreparabile danno alle corde vocali, e minacciano le vie legali. Non
woooooooooooooffa mai, né ha bisogno di
atteggiarsi a bizzosa
borgatara, invece, Uma. E’ una quattro zampe dal vello striato di
bianco e di nero, dall’andatura solenne, dagli occhi turchini,
dallo sguardo di ghiaccio, fulminante, capace di intimorire chiunque
osi avvicinarsi senza la doverosa deferenza verso un esemplare di
notevole spessore, verso un Akita Inu, verso un prediletto
dell’Imperatore del Sol Levante. Lei accetta di buon grado la
comunella con me, cane dei Windsor, della monarchia di Albione, per
questioni di nobiltà, di alto lignaggio, che voi plebei non potete
comprendere. Con l’umiltà di un grimpeur gregario e con il senso
del dovere di un Samurai, mi incita allo sforzo finale, sino alla
vetta. Io, in cambio, le offro metà dell’ultimo biscotto a
disposizione, a mo’ di borraccia di Coppi e Bartali sul Galibier.
Solo che Uma ha una apertura di fauci che par di coccodrillo e
un’esuberanza gioiosa di cane amato dal suo barbuto umano, col
quale condivide ogni attimo di vita. Prima ancora che il padrone
riesca a dividerla, si è già pappata tutta la colazione al sacco.
Resto senza spuntino. Non ho più nulla da mangiare. Le ultime stille
di energia svaniscono. Il cammino fino alla vetta è un
pellegrinaggio di dolore, una via crucis, un supplizio, un lento
trascinarsi per metri che paiono
chilometri, per campagne mature
della bella stagione che sembrano di colpo paesaggi lunari, per
polmoni frondosi d’aria pura e resina che accorciano il respiro e
mi incollano al terreno. Al traguardo, non ho nemmeno la forza di
ringraziare la Giapponese. Il padrone, invece, ha paura. Teme non ce
la farò a tornare indietro. Invece, oh qual miracolo, in un amen
recupero l’ancestrale vigore, saltello come un chicco di grano in
una casseruola colma d’olio d’arachidi, sgattaiolo e sculetto che
sembro una lucertola, fino alla macchina. A casa, mi nutro avidamente
e ammicco alla tavola imbandita, aggredisco un fantoccio che suona,
torno a governare il quartiere dal terrazzino, fino a che non cala la
notte. Qualcuno può gentilmente spiegare al padrone che camminare
senza un fine, per il solo gusto di sgranchire le gambe, alla guisa
di un gagà, non è di mio gradimento e che preferisco rimanere a
casa, a riposare come un leone, in attesa di attività che più si
confanno a un cane pastore, a un nobile custode delle greggi?
Carmine
Tedeschi