venerdì 29 aprile 2016

L’IDENTITA’ TROVATA (Le ennesime lettere di Jacopo Corgis)

Nel mio lento e svogliato passeggiare quotidiano, incontro tanti colleghi. Mi duole ammettere a me stesso che un po’ li invidio. La maggior parte di loro ha un fisico molto più prestante del mio. Il levriero Jack ha delle zampe così lunghe e sottili che, quando
corre, sembra danzare come un fiocco di neve nel turbine della bufera. Silvana la Dobermannessa ha una struttura così granitica da fare invidia alle cariatidi dell’Eretteo. Il Rottweiler Demon ha un volto tanto paffuto quanto quadrato, un corpo tanto possente quanto compatto che, nel momento in cui ci troviamo muso a muso, perdo la vis pugnandi da Masaniello del rione e mi nascondo dietro le gambe del padrone.  D’altronde, non potrei mai affrontarlo ad armi pari. Sono un pastore tozzo, goffo, compatto. Sculetto e ondeggio come un granchio sulla battigia, le mie orecchie fanno invidia ai ripetitori di Radio Maria, il mio pelo accarezza la terra e diventa poltiglia al primo scroscio di pioggia, di questi tempi assorbo forasacchi come l’aspirapolvere di casa risucchia i lasciti della mie esperienze di vita. “La diversità è bellezza”, si suole dire. Condivido. Però, se mi regalassero dieci centimetri di zampe, un
posteriore meno a panettone, dei padiglioni auricolari meno aguzzi, non mi lamenterei. Tutt’altro. Almeno, eviterei il dileggio. Sì, purtroppo, vengo sovente ischerzato per le mie forme. Pensate, appena accedo in un bar del natio borgo, flotte di avventori mi danno un benvenuto di tal posta:<<É arrivato il camion della birra! Il CAMION DELLA BIRRA! Vieni, che ci mancava>>. Avete capito, gente? Mancava la birra, non io, non il mio sguardo d’amore, non la mia coda che ondeggia ad andante allegro.  Un altro oste, invece, più dignitoso, mi appella semplicemente “la corriera”. In città, la situazione non è poi tanto migliore. Per gli abitanti del capoluogo, sono una salsiccia, un torcinello (specialità molisana con interiora di carne), un tocco di legno per il camino nella notte di Natale, una baguette coi peli. La definizione che più mi ha ferito
resta comunque, “il cane stesscion vuegon”, affibbiatami da un venditore ambulante di scarpe durante una festa patronale. A queste doglianze strutturali, si accompagnano, ahimè, delle gravi problematiche psicologiche che, col divenire dell’età adulta e la perdita della spensieratezza distratta della fanciullezza, stanno emergendo prepotentemente. Seppur iscritto all’Università Can’ Foscari (l’anagrafe canina mi stava stretta), seppur nato “Morning Thunder” e poi destinatario di un nome d’arte da ubriacone del venerdì di un fumoso pub londinese, non ho un' identità definita. Sono un corpo estraneo in società, mi muovo in essa come  nebbia. Nessuno mi riconosce, nessuno sa da dove provengo, nessuno è consapevole del rango altolocato che mi appartiene, nessuno sa che razza di cane sono. Eppure, sono un pastore reale, nato da nobil stirpe, con cugini che dormono a corte della più potente e influente monarchia del mondo, con una servitù umana a loro totale servizio. E non passo certo inosservato, anzi, il mio peregrinare è accompagnato da una miriade di sguardi che, altezzoso qual sono, volentieri non incrocerei. Passano,
transitano  gli occhi del volgo; si posano di sottecchi su di me. Poi, quando sono a distanza di sicurezza, una voce bisbiglia:<<É un volpino>>; l’altra replica:<<No. È un bassotto a pelo corto>>; infine, in un virtuosismo di tesi, antitesi e sintesi: <<Ah è un incrocio di tutti e due. Sarà un esperimento>>, oltre a considerazioni più generali, ignoranti e sciocche sui cani di razza e su chi li acquista, manco fossero gangli malati di questa società. Credetemi, in quei momenti, ancor di più vorrei essere il levriero Jack per saltare e assaggiare delle caviglie. E pure il padrone, penso, non disdegnerebbe di avere canini e molari più affilati. Qualcuno, per fortuna, ha il piacere di fermarsi a domandare informazioni. <<E questo cosa è?>>. <<É un corgi>>, <<Ah, un Corgi. Ma va a caccia?>>. Voilà, che sagacia! Sì sì, come no. Ogni tanto prendo il fucile, indosso la mimetica e me ne vado per boschi  alla ricerca di quaglie, beccacce e piccioni. I terzi, a dire il vero, li inseguo pure in città. Mi attraggono. Non so perché. Purtroppo, in due anni e sei mesi di tentativi, non sono mai riuscito ad agguantarne uno.
Insomma, non ho una identità, sono un canide senza patria e senza razza, uno Jacopo Corgis o Woooooooooooffis dei tempi che vivo. Sento un profondo senso di sradicamento, di estraneità, sono un forestiero in questo paese, un eterno esule. 
“In nessuna parte di terra mi posso accasare. 
A ogni nuovo clima che incontro 
mi trovo languente 
che una volta già gli ero stato assuefatto 
E me ne stacco
sempre straniero
Nascendo tornato da epoche troppo vissute
Godere un solo minuto di vita iniziale
Cerco un paese innocente”.
Quanto mi piace il “Girovago” di Ungaretti. Io mi sento come lui. E mi domando se la mia condizione rifletta quella dell’umanità, in tante calamità di tempi. Cosa siamo?
Abbiamo, o non, gocce di certezze su questa terra che galleggia nell’ instabilità perenne? O viviamo un eterno presente precario di affetti, di lavoro, di valori? Mangiati da una realtà virtuale che sempre più crediamo reale, abbiamo perso il piacere del bello, il gusto delle amicizie, il sapore del semplice, vero amore. Viviamo di apparenze, siamo obbligati a  vestirci di impeccabilità non richiesta, di seriosità non dovuta, freniamo la nostra vita davanti alle paure ed alle convenzioni. Siamo bravi a scrivere che la nostra patria è il mondo, che dobbiamo accogliere, sintetizzare le diversità e vivere la nostra personalità dentro di esse, ma poi costruiamo muri democratici di granito, confini aperti di filo spinato, ghetti cosmopoliti di coscienze, ponti di latta. 
Chiusa questa parentesi di pensieri in libertà, torno a esternare il disagio interiore e, nel rispetto delle prescrizioni di questa rubrica, lo contestualizzo in accadimenti del fine settimana appena trascorso. Il pranzo mi è stato servito con un’ora di anticipo rispetto all’orario CAN-onico. Dovevo affrontare un viaggio in macchina e il padrone aveva letto che è d’uopo tenere per almeno 2 ore il cane a digiuno, prima della partenza. Bene ha fatto. La strada percorsa non è stata delle più agevoli. Lasciata la grande Panamolisana, infatti, siamo finiti in un dedalo di curve vorticose, incroci senza segnali, asfalto a gruviera, rampe micidiali, discese ardite e le risalite, su di un cielo coperto e temporalesco e intorno a noi il deserto di paesi dimenticati da Dio e dagli uomini, con panchine solitarie, botteghe chiuse, case di calcinacci, terre incolte, campi di calcio
invasi dalle erbacce, pompe di benzina abbandonate dopo l’ultimo bombardamento alleato, pale eoliche a dominare una valle di solitudine e silenzi. Alle 16, siamo finalmente arrivati in un ameno borgo di 300 anime, situato sul cucuzzolo di una collina. Nonostante fosse tanto dismesso da ospitare un campanile senza Chiesa, distrutta dal tremendo tremuoto del 1805 e mai più ricostruita, giovani brillanti e amministrazioni lungimiranti avevano organizzato un eccellente festival dedicato alla street art e cittadini avveduti avevano ben volentieri consentito che le pareti delle loro case diventassero cornici per dipinti di noti artisti, italici e non. Un quadretto di mondo, inumidito dalla pioggia e ingrigito dal decennale abbandono, si era così trasformato in una tavolozza di colori vivaci, di musiche a cielo aperto, di genti festanti, provenienti da ogni dove. Speravo, quindi, che qualcuno mi riconoscesse, mi identificasse come un pastore gallese del Pembrokeshire, confidavo in un mentore che mi indicasse la via del mio essere.  Il primo ad avvicinarsi è stato un autoctono sulla sessantina. Mi ha analizzato a fondo, animando in me speranze. Il cuore mi bussava alla gola. Stravolto dalle emozioni, ho allungato le zampe verso di lui, in segno di sottomissione eterna. Ho pensato:<<finalmente è arrivato colui che mi darà un Nome>>. Invece, ha domandato al padrone, adoperando l’idioma del borgo:<<uè stu cuose è buon pe la caccia. Te ru vuò venne?>> (la saluto e mi pregio di affermare, con cognizione di causa, che questo quadrupede ha le stimmate del cacciatore. Desideri cedermelo, dietro congruo e concordato prezzo di vendita?). Sacrebleu! L’umano, nonostante ogni tanto minacci di mettermi all’asta su ebay, ha declinato frettolosamente l’offerta. Meno male. Ma poi, secondo voi, sono veramente in grado di stanare e catturare sguscianti prede? Mah. Qualche ora dopo, mentre ondeggiavo per scendere un vicolo di scalini, ho visto una donna. Veniva in senso contrario al mio. Quando ci siamo trovati difronte, lei ha preso a blaterare come una cornetta che, dall’altro capo, è occupata: <<Tu tu tu tu tu tu tu>>. <<Sì, è libero. Risponda dopo il wooooffare acustico>>. <<Tu tu tu tu tu tu sei l’animale che usa la Regggina>>. Sì, certo. Sua maestà mi usa, mi adopera come cattura polvere, come paraspifferi, come poggiapiedi per le sue gambe stanche di vecchiaia. Escludo, invece, le mansioni di cacciatore.  Povero me! E non era ancora finita. Al calar della
sera, ero stanco. Gli infiniti alti gradini, la pioggerellina insistente, l’umidità penetrante mi avevano invaso. C’era soltanto un’ultima parete da visitare. Era così ben truccata che mi sono messo volentieri in posa per una foto. Mentre facevo per andare via dal set, da un angolo di strada è apparso un uomo. Era dinoccolato e smagrito, il volto pallido sovrastava capelli degni di Alice Cooper nei periodi di maggiore spolvero. Portava un giubbino di jeans con le maniche che pendevano fino ai gomiti, delle Superga di colore blu. Fumava una Marlboro. Mi ha visto. E ha osservato, ad alta voce:<<ooooooooooooooooh, ma tu guarda. Un VUELsce Gorgi>>. Non potevo crederci. Mi aveva identificato, riconosciuto, con apprezzabile precisione, mi aveva conferito l’identità che tanto languivo. Ahimè, la gioia è durata poco. Ho scoperto che quell'uomo era il VUETerinario condotto del paese. Proprio lui. Oh, povero me, solo, mesto e lasso in questo mondo. Nemmeno gli esperti del settore, pur riconoscendomi, riescono ad  apostrofarmi  con l’esatta dizione. Devo comunque osservare che non ho tratto dall’avvenuto riconoscimento, seppure impreciso, l’appagante piacere che mi aspettavo da sempre. Anche l’umano se n’è accorto dai miei occhi. Fluttuare per le strade alla ricerca del mio io, urtarmi di fronte agli zotici che non sapevano pronunciare il mio nome, in realtà, non era poi così male. In questo spazio privato di esistenza  voglio custodire i miei segreti, le mie paure, i miei misteri ed essere libero di crescere senza temere di dover rientrare in una categoria universale che smorza la pazzia di essere autentico. Siamo creature che vivono nella singolarità. Non abbiamo identità se non quella con cui ci firmiamo o con cui riusciamo a sorridere, tra noi e noi.


Carmine Tedeschi


1 commento:

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