venerdì 26 febbraio 2016

Diario di un CORGIparto

I giorni trascorrono lenti e pigri, la mia pancia ormai è in procinto di esplodere, fatico a camminare, mi limito a ciondolare per qualche metro se devo spostarmi in un punto più caldo o più fresco della casa e a tracciare un solco sulla poca neve rimasta quando è l’ora delle uscite. Sono stanca, veramente stanca. Del mio appetito non voglio nemmeno parlarne, non ci sta più nulla qui!!!

Pronta ad esplodere...

La mamma è nel bel mezzo dei preparativi del parto, mi ha creato una bellissima tana, mi ha regalato delle copertine nuove morbidissime e ha appeso una foto del mio amato sulla parete della cuccia cosi che possa essere presente anche lui quando i nostri cuccioli verranno al mondo, solo a lei possono venire in mente queste idee…

La mia cassaparto arredata...

Manca ancora qualche giorno alla fatidica data ma Anita afferma che stanotte ci sarà la luna piena e si dice che in questa fase i cuccioli nascano molto più volentieri, oltretutto, secondo lei, la mia pancia è cambiata. 
Si, come no, son tutte balle per trovare la scusa ed usare il termometro, strumento infernale! Fatto sta che in effetti, nonostante manchino tre giorni al termine, la mia temperatura è già scesa a 37°C e il momento è quindi ormai giunto. Ultimi preparativi e sale l’agitazione. Prima di andare a dormire mi sottopone di nuovo alla prova termometro: 37.2°C “c’è tempo” dice e mi mette a nanna. Non ho molta voglia di entrare nel kennel a dire il vero ma la accontento.

La luna piena assomiglia alla mia pancia...

Dopo qualche ora devo mio malgrado dar ragione alle dicerie sulla luna piena, devo assolutamente preparare il posto perfetto per dare alla luce i miei cuccioli e lo devo fare adesso, alle tre di mattina. La coperta messa così non va per niente bene, con le zampe inizio a spostarla da una parte all’altra del kennel, no no, così non va, così nemmeno… Pochi minuti e mi raggiunge Anita, svegliata dalle mie opere di carotaggio, capisce cosa sta succedendo, scompare qualche istante e si ripresenta con una pila di asciugamani, guanti e una coperta. Mi fa uscire un pochino e poi mi fa accomodare nella cassaparto, qui ho decisamente più spazio per crearmi il giaciglio perfetto, gli asciugamani profumano e c’è anche la mia coperta, va molto meglio!

Certo che TotoMiao proprio non riesce a farsi i fatti suoi...
Si fa mattina, Anita ha passato il resto della notte assieme a me in attesa di avvisaglie più importanti, si svegliano le bimbe e inizia il solito tran tran di colazione, vestizione pargole e pulizie, anche se oggi l’agitazione è palpabile e trascorre più tempo seduta vicino a me che tra aspirapolvere e altre diavolerie.

Ormai ci siamo...

Passano le ore, iniziano i primi dolori e non trovo una posizione comoda, faccio avanti e indietro nella cuccia, sistemo ancora un po’ gli asciugamani, poi finalmente a mezzogiorno ho la prima contrazione. 
Adesso tutto il resto non esiste, Anita è sempre con me e non mi stacca gli occhi di dosso, passano altre due orette e finalmente iniziano le contrazioni decisive! Decido però che proprio in questo momento per me è molto importante uscire, devo assolutamente fare pipì e non posso farla qui! Un po’ riluttante la mamma capisce che il mio è un desiderio imperativo e mi accompagna fuori, faccio pochi passi e mi accovaccio. Una, due, tre contrazioni forti e molto molto vicine!!! Ecco che nasce il primo! Tutti i preparativi per la tana perfetta e ovviamente nasce in giardino… Le bimbe hanno visto tutto dalla porta finestra, Lia ha i lacrimoni e Giorgia è felice perché vede la sorellina ridere assieme alla mamma “E’ femmina! E’ femmina!!” Anita mi riporta in casa, scrive l’ora di nascita e mi aiuta a pulire il mio primogenito. Parlo al maschile perché è un maschio, fortuna che Anita porta gli occhiali!

Le bimbe incantate...

Il mio primo capolavoro

E’ andato tutto bene, il piccolo è sano e vitale, inizia presto a piagnucolare e io lo rassicuro a suon di leccate, presto pero’ ricominciano i dolori e capisco che tra poco avrà compagnia, mi stendo e di nuovo una, due e tre contrazioni, nasce il secondo, anche questo è un maschietto, bellissimo… 
Dopo un’oretta si ripete il tutto e nasce la prima femminuccia, un piccolo colosso di 290 grammi! Sono stupendi, Anita è letteralmente rapita, le bimbe sono emozionatissime e anche la mamma di Ribot e i miei nonni, che stanno seguendo il parto in diretta, mi fanno i complimenti.

Il secondo nato

Approfitto della pausa per dormire un pochino
Fortunatamente mi viene concessa una pausa e per quasi due ore riesco a stare tranquilla, pulisco bene le mie tre meraviglie, bevo un po’ d’acqua e dormo una mezz’oretta. Poco dopo le cinque ecco che ci siamo di nuovo, uno, due e tre e nasce il terzo maschietto, alle sei e un quarto arriva invece una femminuccia con un bel musetto bianco. Io sto bene, sono tranquilla, sta procedendo tutto in modo perfetto. E’ tornato a casa anche il papà che è passato a farmi una carezza e ad incoraggiarmi, adesso ci siamo proprio tutti! Dopo le sette ricominciano le spinte e in pochi minuti nasce un altro maschietto. Adesso vicino a me ci sono sei codine dalla punta bianca che si dimenano, sei piccoli tartufi e sei paia di bellissime orecchie a punta…
Anita prepara la cena e mentre tutti sono a tavola continua a venire a controllarmi, appena tutta la famiglia torna vicino a me, sul divano di fronte al caminetto acceso, ho di nuovo delle contrazioni, quattro spinte forti e viene alla luce la sorpresa della cucciolata, la mamma esclama “E’ nero! E’ completamente nero!!!” e il papà si lascia sfuggire un “Wow, se è femmina la teniamo!” seguito da uno sconsolato “Cosa ho appena detto…” alla vista degli occhi illuminati e il sorriso a tremila denti di Anita che sta procedendo a pesare la new entry, speranzosissima. Inutile dire che invece è un maschio.

Il piccolo tricolore...
Dopo questa grande emozione è l’ora di mettere a nanna le bimbe, da domani avranno tanti nuovi amichetti con cui giocare, Anita invece decide di restare a dormire vicino a me, si è accorta che ho avuto una sola contrazione ed è un po’ in pensiero. Dopo un’ora infatti ho di nuovo delle spinte ma so che c’è qualcosa che non va, purtroppo il mio ultimo piccolo nasce senza vita, io lo so e preferisco non guardarlo e dedicarmi agli altri che chiedono a gran voce il primo latte. La mamma le prova tutte tutte ma non c’è nulla da fare e dopo venti minuti buoni si rassegna anche lei. E’ giù di morale ma tornata vicino la cuccia, si accoccola sul bracciolo del divano e si perde a guardare me e i mie sette fagottini piagnucolanti, mi fa dei grattini sotto al mento e dietro le orecchie e mi dice che sono stata bravissima e che adesso inizia il bello, sarà stupendo crescere questi piccolini, immagina i primi passi, la prima uscita, i primi giochi, la prima pappa e le prime abbaiate… E tra questi bei pensieri mi abbandono nel sonno della mia prima notte da mamma.


I fiocchi appesi all'entrata della mia cuccia


venerdì 19 febbraio 2016

"LA SETTIMANA INCORG" - Le Influenze dell'Amore


Ti scrivo, gentile Lucy, dal terrazzino di casa. Ormai passo il tempo mio primo qua, su questo rettangolo di ferro, ringhiere, mattoni. Unico amico è il vento da Sud che ulula, sbuffa sulle imposte, fa danzare le nuvole e trascina la mia palla preferita sotto al muso. Io la scanso. Non mi interessa giocare.
“Non tengo genio”, come dicono a Napoli. Da burocrate dello standard di razza, da pastore nei secoli fedele al di là dello stato d’animo, mi limito a svolgere il ruolo di guardiano del territorio: abbaio a chiunque fischietti o osi nominare “Luppolo” invano, seguo con lo sguardo qualsiasi figura umana di passaggio, intimo ai gatti di allontanarsi dall’ autovettura del padrone, monitoro le azioni di ogni collega che sfida il fato passandomi sotto i baffi. Ne vedo tanti di pelosi: alti come ciclopi o minuscoli come alette di pollo, vestiti di manto crespo e soffice come fiocchi di latte o dalla scorza liscia e dura come pietra di fiume, panciuti e lindi al guinzaglio dei padroni o trascinati di vita che raccattano avanzi d’immondizia e odorano di sporcizia e solitudine. Da un po’ di tempo a questa parte, nessuno di loro solletica il mio animo, nessuno si merita il diritto a una wooooooooooffata che non sia meramente formale. Non posso sprecare il fiato per un cane diverso da te, egregia Lucy. Mi manchi. È già giovedì, il guado di metà settimana è stato valicato, ma io continuo a voltarmi indietro e a guardare ai giorni che il mondo consacra al trionfo della comunanza d’affetti, dei cuoricini, dei baci, delle carezze, della parola più semplice e grandiosa che esista: amore. Venerdì scorso, per te, avevo addirittura accettato, dopo lo scempio della visita veterinaria del mercoledì, l’umiliazione del trattamento della toelettatrice. Non potevo presentarmi al tuo cospetto come l’ultimo degli zoticoni, trasandato, con le zampe lerce di fango e il petto a far da cattura polvere più dello Swiffer. Dovevo profumare di mughetto e fiori di bosco, volevo il pelo liscio come il piede di una donna appena uscita da una vasca di rose, la coda ritta e gonfia come uno stecco di legno avvolto dallo zucchero filato.
A ripensarci bene, ero proprio attraente: il volto cotonato di phon da poco passato, la zazzera bionda che fendeva la tramontana, le orecchie senza peli superflui, facevano di me un irresistibile adone monovolume. Ti saresti innamorata d’un sol colpo, mia cara Lucy. Saresti stata mia già quella sera e a San Valentino avrei steso un tappeto di stelle e salsicce all’ingresso della tua casa. Prima di cena, il sinistro e cupo sibilo del compagno vento mi sembrava una musica che sorrideva agli angeli, una melodia argentina suonata da un’arpista vestita di bianco e dai boccoli biondi. Perché debba essere per forza bionda e vestita di bianco non so, ma al padrone piace così. E io mi adeguo. Purtroppo, a tanta celestialità, facevano da contraltare cupi versi che giammai avevo udito prima: erano tonfi della voce, espettorazioni che, dalle viscere dei polmoni, risalivano fino alla superficie della bocca e morivano nel salone di casa, congedate dall’ epitaffio “e che casso”. Il padrone starnutiva, tossiva, i suoi occhi erano gonfi di lacrime che non nascevano dall’emozione di un pianto. Si trattava di una cosa che chiamano “influenza”, mia Lucy. Le donne raccontano che sui maschi ha un impatto devastante: basta che il termometro superi i 37,4 per paralizzarli in un letto di dolore, patimento fisico, sofferenza morale, dal quale riemergono, improvvisamente e temporaneamente, solo quando il pranzo della domenica è in tavola o la sveglia suona l’orario del campionato di calcio.
Il padrone, venerdì, con 37,3 periodici, registrati alle ore 20, ancora non era sprofondato nel buco nero del flagello ma ci si stava incamminando a passo di processione del Venerdì Santo; quel bastone di legno che usa per difendersi da eventuali attacchi di colleghi era diventato il sostegno della sua vecchiaia, affinché le gambe non cedessero sotto al peso della malattia.  Comprenderai benissimo, o mia bela Basutina, che l’uscita è durata il tempo necessario per l’espletamento delle funzioni vitali. Esauritele, ho dovuto riprendere la via della dimora. Al passaggio sotto al tuo portone, ho provato a sterzare. Invano. L’hanno avuta vinta prima l’umano, poi il sonno della notte. Mi sono ridestato all’alba, già voglioso di uscire. Il padrone, ahimè, registrava 37,5 gradi centigradi. Ha avuto solo la forza di aprirmi il balcone. Dal terrazzino dal quale ora scrivo speravo di vederti passare o, almeno, respirare un po’ del tuo odore, convogliato da raffiche di scirocco che dipanavano i gomitoli di nuvole e lasciavano filtrare un po’ di luce. “Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”, recitava una breve e superbamente fosca poesia. E io ero lì, imbiondito dall’astro, in attesa delle ore serotine. Ero convinto che, sostituito il malato con Signor il Papà, avrei goduto di una lunga passeggiata nella direzione indicata da Cupido. Alle 20:40 ho avanzato la prima richiesta. Nessuno mi ha dato retta. Al contrario, il padrone, riemerso un attimo dalle coperte di panno e fustagno, ha chiuso la porta della sua stanza, comunicando che non ci sarebbe stato per le successive due ore. Il papà, invece, mi ha pregato di attendere 45 minuti. Alle 21:31, 45 più un minuto di recupero, puntuale come un orologio svizzero assemblato in Corea, mi ha vestito di tutto punto, con addirittura il cappotto Barbour antipioggia, che sta a un pastore gallese come i Dirndl e i Lederhosen stanno all’Oktoberfest ein prosit ein prosit.
Ho varcato il portone a velocità di razzo e ultimato il curus bisognhorum in un amen. Sotto al tuo balcone, c’erano già tre colleghi randagi, ritti come statue di bronzo, che ascoltavano woooooooffanti lamenti. Non li ho degnati di uno sguardo, né li ho minacciati. Non ho avuto il tempo di farlo, ahimè. Alle 21:46, inizio del secondo tempo, genitore 2 ha fischiato la fine della mia gioia. Quando le urla vandaliche del padrone hanno sconquassato le mura domestiche e oscurato Annalisa Minetti come voce protagonista del Festival in onda sull’altro CANale, ho capito sia perché tu guaivi alla luna, sia perché a me erano state concesse solo briciole di aria aperta. Come diceva, più o meno, Blaise Pascal, “il cuore ha delle ragioni che il pallone non conosce”. C’era Juventus – Napoli in Tv. Niente altro contava per il masculo italico. Mi sono messo a dormire con il dispiacere nel cuore. Speranze e illusioni si stavano spegnendo al cospetto della cruda realtà. Restava solo la domenica, restava solo San Valentino. Era pomeriggio inoltrato. La luminosità di un giorno finalmente sereno stava lasciando già spazio al grigio di cumulonembi che avanzavano dalle montagne. Io, appena rientrato da una sessione di “acchiappa la palla”, dormicchiavo dietro le sbarre, nelle prigioni del mio cuore. D’un tratto, ho sentito una voce nota.
Ho aguzzato la vista. Eri tu, proprio tu, Lucy, che facevi per chiamarmi. Quanto eri bella. Al cospetto delle tue zampe corte e ossute le pozzanghere di terreno si trasformavano in specchi d’acqua celeste come il cielo d’altitudine in un giorno di solleone. L’asfalto si scuoteva al tuo passaggio e gli animali del sottosuolo risalivano dalle sue fessure per contemplarti. Il prato del giardino ribolliva e i ricci riemergevano dal letargo dell’inverno. I grilli affamati di sonno brumale deliziavano il tuo allegro cammino con dolci cori. A ogni abbaiata, gli stormi di rondini perdevano la via maestra e non si curavano più di dove volessero migrare. Lo sguardo languido ingentiliva anche l’animo del pastore più rude che si fermava ad ammirarlo, il corpo lungo e sinuoso scuoteva dal torpore anche il più appagato dei seduttori, il pelo biondo luccicava come un campo di girasoli, i mustacci fluttavano nell’aria leggeri come le corde di un violino. Sconvolto dalla passione, mi sono messo a correre e latrare così intensamente che, se avessero voluto immortalarmi in un video, avrebbero dovuto adoperare la Cavalcata delle Valchirie come colonna sonora. Non è servito a nulla. L’ “adduormete”, imperativo rafforzativo del verbo “ruorme”, mi ha fatto capire che il nostro appuntamento fatale si sarebbe limitato a uno sguardo fulmineo come un lampo, ma tonitruante d’amore come il tuono di quel temporale che, col padrone che delirava di un’ebola che addirittura solleticava i 37,7, ha obbligato la mamma a concedermi solo l’abC della Camminata. 
 

Sono passati quattro giorni da allora, mia preziosa, mia amata. La bufera ha spezzato rami e scoperchiato tetti, due fiocchi di neve hanno cantato il de profundis dell’inverno, una pioggia bagnata d’Africa ha arrossito questo giaciglio di cemento dal quale guardo l’orizzonte che il guardo non esclude e riempio un foglio di lacrime e inchiostro che presto ti spedirò. Non so dove sei ora, se ti sei già scordata di me o se mi stai pensando, se stai piangendo per me, se qualche volta respiri a fondo per sentire il mio odore, se ogni tanto poni la testa tra le ringhiere rosse per vedere al dì là del balcone e incrociare il mio sguardo, se pieghi la testa per percepire la mia abbaiata cristallina tra le tante ringhiate del quartiere, se alla sera mi senti tanto vicino da chiudere gli occhi col mio sonno, se sono per te qualcosa che non si può perdere. Io so che senza di te sono perso. Ora che il padrone si è ripreso dalla grave e perniciosa afflizione e parla di sé come un Lazzaro moderno, tornerò, ogni sera, a spingere le mie zampe verso il tuo portone, in attesa di incrociare le tue.
Te lo prometto. Parola d’odore. Non mi spaventeranno le intemperie, non avrò timore dei molossi e dei pastori di grande stazza che intenderanno approfittare del tuo estro, non la darò vinta agli umani che vorranno tracciare la via di casa senza regalarmi un minuto di beatitudine, non mi turberà il vento che infiammerà le mie orecchie malandate. È più forte di ogni patimento questa vampa d’amore che mozza il respiro, opprime il petto, paralizza le gambe, arroventa il cuore, brucia la mente. Solo tu potrai spegnerla, mia diletta.   
Corgilandia, 18.02.2015


Tuo Farfallino

martedì 16 febbraio 2016

Diario di una CORGIgravidanza - 4° puntata

Che settimana intensa! L’appetito è finalmente tornato, non mi riesce ancora di finire tutto in una volta la mia razione ma alla fine non è poi così male comportarsi da bipede facendo colazione, pranzo e cena.
Mi piace suddividere la pappa in base a quello che mi prepara la mamma, a pranzo solitamente mangio i pezzi migliori, quelli a cui proprio non so resistere. A cena poi tocca al macinato e normalmente la mia ciotola viene portata in casa poco prima della mia uscita serale, per cui non riesco a gustarmelo in santa pace a causa di quell’antipatico di Totomiao che si apposta sempre troppo vicino alla MIA pappa; non è per nulla piacevole mangiare e sentirsi osservati! Al mattino infine resta la parte meno gradevole, non so perché la mamma si ostini a mettere tutti i sacrosanti giorni delle verdure nella mia ciotola! Ma so che ci tiene, specie in questo periodo, al fatto che mangi anche le “verdurine buone” quindi l’accontento, anche perché so che se le finisco mi regala un pezzettino di pane…
La nuova mania della mamma è fotografare la mia "abbondanza"

Il papà questa settimana non c’è, è via assieme a Grinta e per questo motivo c’è tanta agitazione in casa. Sono andati a scuola di "naso", così almeno piace dire alla mamma che ci tiene sempre a sottolineare la cosa con Persil che sarà il suo “Persillone-nasone-puzzone” . Non ho ben capito di cosa si tratti in realtà ma visto che da quando sono tornata dalla mia vacanza con Ribot non corre buon sangue tra me e Grinta, sono davvero contenta che non ci sia... ahhh Ribot!

Il mio adorato kennel inizia ad andarmi un po' stretto
Anche la mamma approfitta dell’assenza del papà per dedicarsi a certi lavoretti che le piacciono tanto, oggi ha portato in casa delle grandi tavole di legno, le ha pulite per bene e poi pitturate, dice che sono per me, che sta rimettendo a nuovo la cuccia che ospiterà me e i miei piccoli per i prossimi mesi. Come al solito però si è fatta prendere la mano e stanno spuntando colori che prima non c’erano, buchi, fresature... Per farla breve c’è segatura OVUNQUE in casa perché fuori infuria una vera e propria tempesta di neve ma lei DEVE fare oggi questo lavoro.
Tanto il papà non c’è e non può brontolare..

La mia cassaparto sarà multicolor questa volta 
Stamattina quando Anita è venuta a svegliarmi e mi ha portata fuori in giardino per i miei bisognini mi è venuto un colpo, la nevicata di stanotte è stata davvero imponente! Non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di avventurarmi, anzi di sprofondarmi, in mezzo a cinquanta centimetri di neve per cui faccio la mia mini camminata mattutina lungo il sentiero obbligatorio tracciato dal tetto spiovente di casa e me ne torno veloce in casa.
Gli unici felici sono i piccoli di casa, ovvero le bimbe che si tuffano ai bordi della strada creata da Anita per uscire di casa e quel discolo di Persil, il quale si crede un super atleta che corre agilmente sulla neve ignorando che in realtà fa più la figura di un bruco che si contorce dentro un vaso di terra troppo morbida… Inguardabile, orgoglio canino messo al tappeto!

Eccolo qui... L'abominevole bruco delle nevi!

Finita la mattinata di agitazione post mega-nevicata ci accoccoliamo tutte e quattro sul divano, io, Anita che mi ha issata a mezzo metro da terra tra i soffici cuscini e le bimbe, davanti al caminetto, guardando per l’ennesima volta lo stesso identico cartone animato delle ultime settimane, no no che dico, degli ultimi (parecchi) mesi. Momento di relax assoluto, bimbe tranquille, Grinta ancora a scuola, segatura scomparsa e ho appena finito di mangiare… Pochi minuti e sprofondo beatamente nel mondo dei sogni, la mamma come al solito mi accarezza la pancia e oggi per la prima volta la sua ricerca viene ricompensata quando sul palmo della mano sente finalmente due calcetti… Ormai manca davvero poco, tra una decina di giorni dovrebbero finalmente nascere i miei cuccioli!





venerdì 12 febbraio 2016

"LA SETTIMANA INCORG" - Il terrore è un apostrofo nero tra le parole "vet" e "rinario"

Per noi cani, la parola “benessere” fa l’amore con “abitudine”. Se ci è consentito ripetere, a orari fissi, attività che stimolano la mente e il corpo, prima di tornare a sonnacchiare beatamente, siamo soddisfatti. Ci godiamo così una felicità parca, mite, senza eccessi, ma che ha il pregio di non affondare mai nelle onde dell’effimero e dell’irraggiungibile.
Un’arte del vivere quotidiano alla ricerca di piccole gioie, dolci attenzioni, carezze leggere, in attesa di bagnare il pelo tra i prati croccanti di ghiaccio e ammantati della rugiada del mattino, rincorrere la palla su uno spelacchiato campo di calcetto al pomeriggio, inseguire le canesse alla sera, mordicchiare il pezzetto di mozzarella che furtivamente viene passato dalla mamma durante il pranzo, saltare sulla mano del padrone mentre porge un biscotto, scodinzolare a chiunque dia l’impressione di profumare di simpatia, poltrire 10 ore filate accanto al letto di chi ci vuole bene.  Io dico che se gli umani prendessero esempio da noi e si imponessero di ritagliare almeno una fetta di giorno per i piaceri, per gli affetti di sempre, per le passioni che bruciano nell’animo, forse, vivrebbero meglio.
Preso atto di quanto scritto sopra, che nemmeno ho ben capito, esaurita la mia carriera di filosofo da social network, faccio notare come qualsiasi cosa in grado, anche potenzialmente, di deviare dal normale scorrere dell’esistenza, turba, inquieta, allarma un cane, specie se nato fannullone e timoroso pure delle campane della Chiesa del villaggio. E ogni riferimento alla mia pelosa persona non è per nulla casuale. È sufficiente che il padrone non vada a lavorare, per farmi rizzare le orecchie. Giusto ieri, dopo pranzo, l’umano, anziché mettere a tracolla la borsa di pelle, si è seduto in poltrona. Con fare guardingo, quasi danzando sulle corte zampotte, mi sono andato a nascondere in quell’angusto angolo di salone che ho scelto come cuccia. Allungato sul freddo pavimento, ho ascoltato qualsiasi cosa la famiglia dicesse e controllato di sottecchi ogni movimento della casa.  Non riuscivo a dormire:
respiravo un odore marcio come quello che, alla fine del temporale, emana una città zeppa di ciminiere che sputano veleno nell’aria. Qualcosa sarebbe successo di lì a poco. Ne ero certo. E, infatti, alle 15:45, il padrone ha urlato: <<Orsù, Luppolo, andiamo. È ora>>. quindi, ha aggiunto, abilmente adoperando il giamaicano antico <<ya ya ya ya ya yamm>>. Non ho raccolto la sollecitazione. Al contrario, mi sono fatto così piccolo da imboscare le zampe tra le maglie del lanoso e folto pelo. Non è bastato. Sono stato invitato a non fare ciance. Per tutta risposta, ho voltato lo sguardo verso il muro portante. Nonostante la facessi pendere come il braccio del Marat di David, l’insensibile umano mi ha sollevato la testa. Fattosi forte, quel pusillanime, del guinzaglio in funzione di leva, ha tentato di mettermi in piedi a mo' di macellaio che appende un quarto di bue. Illuso!!!! Avrebbe potuto anche rompermi la noce del capocollo: non avrei fatto una piega. Allora, sono stato preso in braccio. Non bastò; non appena le unghie raschiaron lo nudo terreno, caddi come corpo morto cade. Sbuffando come un boiler di ghisa per il nervosismo, il bulletto che si atteggia a capobranco è stato costretto a condurre un sacco di patate fino al cortile. Lì, inaspettatamente, ha lanciato una palla da tennis nel vuoto. Per la gioia, l’ho addirittura riportata indietro. Ahimè, un altro tiro non c’è stato: sono finito sul sedile posteriore di una macchina. Il viaggio è durato pochi minuti. Sceso, ho fatto dieci passi verso l’ignoto. Quando ho visto la porta bianca e la figurina Canini dello schema del gioco “tris” stilizzato, ho finalmente capito a cosa mi stesse conducendo l’ineluttabilità del destino: a una visita dal veterinario. Ho cercato di ribellarmi agli avversi numi tirando la zampa a mano e facendo un flash mob in solitaria. Non è bastato. Il debole coi forti, forte coi deboli mi ha trascinato, con fare sbrigativo, in sala d’attesa. Intorno a me, uno scenario desolante di colleghi rintanati sotto le sedie e di gatti intenti a imitare l’uomo Ragno sulla rete dei trasportini. Respirando a fatica per la paura, mi sono messo in un angolo. In silenzio.
Ho schivato gli spassi, fatto comunella solo di cortesia con una labradoressa, non ho accettato né carezze né caramelle dagli sconosciuti, anche perché la mamma mi ha detto che non si fa perché ci può stare la ddddroga. Solo quando ho sentito la porta d’ingresso aprirsi, mi sono rianimato: volevo tentare una disperata fuga. Non ho fatto in tempo. Una voce fioca di donna mi ha chiamato: <<Vieni, Luppolo>>. Nella stanza dolente, prima di tutto, è stata richiesta la prova del peso, manco fossi un pugile. Ho presentato istanza di opposizione e sono scappato via dalla bilancia. Il simpaticone di casa mi ci ha rimesso su, io ho incrociato le zampe per protestare pacificamente contro quella che ritenevo una violazione dei diritti miei, dei biscottini e dei salamini. Sono scoppiati tafferugli con gli assistenti veterinari. L’hanno avuta vinta loro. Al terzo tentativo, bloccato a fatica da due robuste mani, la registrazione di un inutile dato è andata a buon fine. Mi hanno allora traslato sulla sedia gestatoria di metallo sulla quale si fa la visita. Respirazione buona, funzioni vitali nella norma, gioielli di famiglia che hanno studiato, corpo tremante come una campana tibetana dopo essere stata percossa da un Monaco che alla meditazione preferisce il Kung fu. Sulla temperatura corporea non riporto i dati precisi perché le modalità di misurazione sono macchie indelebili sulla dignità di un cane reale. Ma non era ancora finita, ahimè. Anzi, il momento veramente impietoso sarebbe arrivato di lì a poco. Dovete sapere che in gioventù ho sofferto per un grave otite, sconfitta poco prima che diventasse irreversibile. Per mesi, ho camminato con la testa piegata sul lato destro del corpo. Degli strascichi di quel periodaccio ne risento leggermente ancora adesso: specie in situazioni di stress, tendo ad atteggiarmi come ubriacone della sesta classe vittoriana dopo un venerdì nel pub più fumoso di Londra. L’apparato vestibolare, capirete bene, è la mia kriptonite, il mio zampone d’achille. Quando l’uomo col camice e lo stetofonendoscopio ha sfiorato il condotto uditivo destro non ho potuto fare a meno, quindi, di guaire di un dolore atroce, struggente, angosciante, lancinante. Immaginate, poi, la reazione alla vista dello spuntone di roccia che doveva conficcarsi fino alle profondità del timpano, per analizzarlo. Vi dico solo che al grido di “scegliete: o Luppolo o Barabba” ho tentato il suicidio lanciandomi dal catafalco. Sono stato salvato da una presa al volo degna del miglior Zoff. Una siringa di vaccino conficcata dietro la schiena ha completato il pomeriggio di strazi.
Sono tornato a casa per consumare il sonno dell’indignazione, in attesa della cena. Mi sono nutrito per sommi capi: gli effetti collaterali del vaccino mi davano un po’ di noia e rendevano ancora più insipidi di quel che già sono i croccantini. Gli umani, nel frattempo, friggevano e facevano saltare in padella del pesce.  Ho fatto capolino accanto alla tavola imbandita. La madre ha tentato di passarmi, di nascosto, una zampa di polipo unta d’olio. Il padrone l’ha bloccata prima che si sciogliesse in bocca. Lo stesso ha fatto per un rettangolo di seppia. A signor il papà ho domandato una striscia di baccalà. <<Indietreggia>>, ha intimato il di lui figlio.  Ho woooooooooooooffato per avere un po’ d’ananas, che scioglie i grassi. L’uomo del Monte ha detto “no”. Mi sono dovuto accontentare di un accenno di mela. Triste e stanco, ho ripreso la via del sonno nella cuccia artificiale dalla quale era cominciata questa narrazione di donne, cavallier, l’arme, gli amori, le scortesie, le gioie, i pesi, gli orecchioni, gli spuntoni, le audaci imprese, le bilance sulle quali vi svelo perché non volevo salire: temevo di essere ingrassato.
E, in effetti, da novembre ho guadagnato 700 grammi. Ora sono una bella porchetta di 14,9 kg, ideale come mascotte delle feste patronali del Centrosud. Per tale ragione, sono costretto a una dieta forzata, che mi priva di quello spicchio di parca felicità al gusto di biscottini al cacao, donati da una preziosa amichetta, e assaggi di prelibatezze umane. “Diman crocchette e noia recheran l’ore”. Sacrebleu!!!



Carmine Tedeschi

lunedì 8 febbraio 2016

Diario di una CORGIgravidanza - 3^ puntata

Continua imperterrito il periodo dell’inappetenza, ora altalenante, e nonostante ciò continuano ad aumentare il mio peso e il volume della mia pancia; la mamma è felicissima e continua a dire che sono la sua super cucciola panzuta e nomina spesso anche il mio Ribot e direi che ormai non mi è più possibile nascondere il nostro piccolo segreto. O forse sarebbe meglio dire i nostri piccoli segreti. 
La pancia inizia a lievitare
La mamma continua ad impazzire tutti i giorni nel vano tentativo di vedermi vuotare la ciotola, adesso che sono ufficialmente incinta si premura ancor più del solito che non mi manchi nulla e in effetti non posso proprio lamentarmi, sta andando tutto benissimo, vado avanti a suon di coccole, bocconcini da parte delle bimbe per compensare la ciotola lasciata mezza piena, pomeriggi al sole e serate passate tra cuccia e pavimento davanti al camino, qualche volta anche sul divano stesa vicino ad Anita, cosa chiedere di più? 
Accoccolata nella neve...
Piacevole novità: da oggi per qualche giorno il papà sarà a casa in vacanza e si prospetta qualche uscita extra per la famiglia, nulla di faticoso per dare la possibilità anche a me di uscire un po’ a sgranchire zampe e tartufo. Siamo stati al campo dove pascolano i caprioli; è un posto facile da raggiungere e allo stesso tempo abbastanza appartato e permette alla mamma di tenere sotto controllo la situazione per dare modo a noi cani di scorrazzare senza guinzagli ma di essere richiamati all'ordine in caso di necessità.
Assieme ai due maschietti, le mie guardie del corpo!
E' bellissimo correre sui prati
Siamo arrivati da poco e il papà già strilla “GRINTAAAA!!!” cerco di capire cosa sia successo, la mamma ride tanto, mi giro e vedo Grinta che si rotola di gusto, foga ed entusiasmo, si vede che è molto soddisfatta e quando si tira su e lungo tutto il fianco ha una maxi strisciata marrone… Papà continua a disperarsi “mamma mia che puzza!!! Ma noooo!!! Siamo appena arrivati!”, non capisco perché faccia tutto sto casino per un po’ di Eau de càcà de martorà ma per evitare altre scenate mi tengo alla larga e continuo a rinfrescarmi nelle chiazze di neve rimasta. Tanto ci ha pensato Persil ad aumentare la dose di profumo in macchina durante il rientro... 
Da qui posso tenere tutti sotto controllo
Una delle cose più belle della neve...rotolareeee!!! 
Ed ora via verso casa
Viste le belle giornate e ringraziando un meraviglioso sole che ha fatto innalzare la temperatura a piacevolissimi 19°C oggi siamo usciti tutti assieme per una mattinata sulla neve. Le bimbe sono felici, una si fa scarrozzare sul bob dal papà e la più piccola ciondola tra le braccia della mamma, a parte due signori che sono partiti poco prima di noi e che ci hanno distanziato, siamo completamente soli, stupendo! 
Oggi passeggio in una cartolina...
Persil scalpita e ottiene per primo la libertà, affonda il naso nella neve e per qualche metro segue le tracce di una lepre ma quando queste abbandonano la pista battuta deve però rinunciare… Il leprotto con le sue vere e proprie zamperacchettedaneve si è sicuramente spostato con facilità sopra i 40 cm di neve ma per quel barattolo di Persil è cosa molto difficile e, diciamocelo, decisamente esilarante a vedersi.
Persil sulle tracce del leprotto
Persil che rinuncia a seguire le tracce del leprotto!!!
Io ho preferito starmene tranquilla, ho fatto un po’ avanti e indietro sulla pista ma è stato comunque faticoso, questa pancia sta diventando ingombrante e sprofondare nella neve non mi aiuta, per cui sono rimasta ad osservare il resto della famiglia, il papà che corre con gli altri cani, la mamma con la sua inseparabile macchina fotografica, Lia che si tuffa nella neve e Giorgia, alle prime armi con tutto questo bianco, che se la mangia a manate.
Un tuffo nella neve l'ho fatto comunque
Al sole...
E’ ora di rimettersi in marcia verso casa, la strada è in leggera discesa e tocca a mamma tirare Lia sul bob; papà va avanti e Persil che ha ancora le pile ben cariche tira per raggiungerlo ma visto che i nostri guinzagli sono uniti trascina anche me e la cosa non mi piace; allora la mamma prova a mettermi sul bob ma mi piace ancora meno, sarò anche una salsicciona ma ce la faccio anche da sola, grazie!

No no, non fa per me grazie!
Dopo questa stancata passo il resto della giornata a riposarmi in casa che si trova letteralmente dentro una nuvola e la temperatura è scesa a 3°C. Oggi, visto il movimento, ho più appetito del solito e vuoto quasi tutta la ciotola, poi mi stendo come mio solito davanti al camino vicino alle gambe della mamma intenta al computer; qui mi addormento tranquilla mentre mi accarezza il muso. Sto proprio bene... 


Anita Todesco

venerdì 5 febbraio 2016

"LA SETTIMANA INCORG" - Scappo dalla Città - La Vita, l'Amore, le Crocchette...

 Il padrone doveva lavorare anche di domenica. La sua agenda segnava l’impegno più importante tra le 12:30 e le 14.30, fetta di giorno in cui, stranamente, giocava anche la Juventus. Non poteva, quindi, stare con me. Quanto è stato triste vivere il dramma dell’abbandono, palpare la solitudine più nera. Il turbamento emotivo l’ho esternato, attraverso contestazioni di gioia, lacrime di tripudio, coda mossa a mo’ di sismografo per dire “no, così non si fa”, nel momento in cui, salito in macchina, Signori i genitori hanno annunziato, urbi et Corgi, la partenza per Capracotta.Capracotta è un borgo di 1300 anime, arroccato tra le vette del Matese. Durante la stagione invernale, è uno dei luoghi del globo terracqueo maggiormente esposti alla furia degli elementi. Pensate, lo scorso marzo, potrebbe aver battuto il record di nevicata più intensa della storia, sottraendolo a una località americana: 256 centimetri in 24 ore. Il primato, purtroppo, non è stato omologato perché mancava un nivometro sul territorio. Eh stranezze di una località sciistica del centrosud.La “semprebianca” Capracotta rappresenta un piccolo angolo di paradiso per me: dovete sapere che, quando la neve cade dal cielo in maniera tanto intensa da rendere croccante il suolo sotto le zampe, dimentico di essere “lazy” e corro a perdizampa, faccio capriole, saltello, fino a sprofondare dentro un cumulo troppo alto per un cane dall’ assetto ribassato. La sterminata valle che frana dolcemente dal paese, inoltre, rinvigorisce la mia natura di pastore, grazie ai tanti animali che vi pascolano liberamente su e che posso inseguire, libero dai vincoli cittadini del guinzaglio. Dal bestiame, gli abitanti del borgo ricavano salumi pregiati e formaggi raffinati.Domenica, i genitori ne hanno acquistati in grande quantità. Immaginate, quindi, quali odori soavi provenivano dalla tavola, apparecchiata per il pranzo del dì di festa e mancante del padrone. Ho rivendicato il diritto di assaggiare qualcosa, poggiando dolcemente il muso sulla gamba di Signora la mamma. Lei si è girata verso di me, io ho fatto gli occhioni. Pochi attimi e il lievemente piccante di un triangolo di caciocavallo ha solleticato i baffi e il tartufo, danzato sulle labbra, accarezzato la gola. Non contento, mi sono arrampicato sulle ginocchia di Signor il papà. Ho prima abbaiato vigorosamente, poi pianto come Mario Merola al cospetto del figlio Contadino Zapppatoooooooooooore scappato in America. Una mezza salsiccia ha chetato la mia furia. Un trancio di ricotta, infine, mi ha condotto al sonno della beatitudine. Alla sera, ho sgranocchiato per sommi capi: ero sufficientemente sazio e stanco. Mi sono ridestato alle 7 del mattino. Il pranzo l’ha servito la Signora. Mi ha soddisfatto: sapeva ancora d’altitudine.Che pasti soavi, che pietanze, che sapori, o Capracotta mia. Quale allora ci apparia la vita umana e il cucinato. Quando sovviemmi di cotante cene, una crocchetta mi preme, acerba e sconsolata. E tornarmi a doler di mia sventura"Inebriato ancora com’ero degli odori e dai sapori della natura incontaminata, a ora di cena tutto avrei voluto tranne che vedere la ciotola verde pisello tornare a riempirsi soltanto di croccantini. Erano lì, in tutto il loro splendore, pardon fetore, a ricordarmi che la felicità è come un calice della miglior bottiglia di vino della cantina, servita in una cena di 5 ubriaconi: dura solo due sorsi di vita, prima di rimescolarsi e riassorbirsi nell’aceto dell’esistenza. Quel cane di padrone non si è degnato di condividere alcunché del suo pasto pantagruelico. Lo stesso ha fatto il giorno dopo. Che rabbia, che cattiveria, che insulto alla dignità di una pelosa persona. BAH(rf). Sbuffavo ancora, agli inizi dell’ultima passeggiata giornaliera, fissata per contratto alle ore 21. Mentre passavo sotto un portone, si è alzato un venticello di tramontana. È bastato per convogliare un po’ del suo odore verso di me. Era lei, la mia Woody, la bassottina tedesca eletta a frequentantessa senza portafogli, la vispa baffuta che mi fa venire le farfalle alle cime di rapa e pancetta allo stomaco. Mulinando affannosamente sulle corte zampe, l’ho raggiunta. <<I miei woooooooooffaggi, egregia>> le ho detto, guardandola negli occhi. Lei è arrossita. Ho allungato la zampa destra sul suo dorso riccioluto. Lei si è tirata indietro. Ma era il tipico movimento difensivo che una donna volutamente fa per costringere l’uomo a un abbraccio più forte, più seducente, definitivo, che la obbligherà a lasciarsi andare. Io, però, mi sa che ho stretto troppo. Lei non ha gradito. Ci ho riprovato. Invano. Woody, stizzita, ha preso la via di casa. Io ho fatto lo stesso. Comunque felice. La sera successiva lei avrebbe capitolato. Ne ero certo. Di mercoledì, ho atteso che si facesse buio sull’amplio terrazzo da cui monitoro tutto ciò che accade nel quartiere. Al tramonto, ho cominciato a fremere: la Fanfara di Venere stava suonando. Aspettavo il gioco dei pacchi pre-uscita con la stessa ansia con la quale un cercatore seriale di asparagi attende la seconda quindicina di marzo. Purtroppo, non so se qualcuno si è portato a casa o meno il malloppo. Non sono affari miei. Ben prima dell’inizio del programma, infatti, il padrone ha preso il guinzaglio. Oh qual gentilezza! Una passeggiata in più. Stranamente, fuori c’erano tanti colleghi che solitamente incontro in tarda serata. Il motivo l’ho capito al rientro: incombeva l’oppio dell’italico popolo; stava iniziando il turno infrasettimanale di campionato e il broccardo “pacta sunt servanda” cedeva al cospetto di un interesse superiore. Ciononostante, arrivata l’ora X, ho rivendicato i miei diritti abbaiando, correndo per casa, frignando, arrampicandomi sul mobile ove giace il guinzaglio. Invano. La proposta transattiva di scendere per una “pisciatella e fuga” all’intervallo tra il primo e il secondo tempo l’ho rifiutata. Non era soddisfacente. Mentre in casa risuonavano urla barbariche di tifosi esultanti, orribili favelle verso le giacchette un tempo nere, insulti al parentame degli avversari dei bianconeri, ho atteso, con dignità, il sonno, accanto al balcone, nella speranza di vedere passare, lungo la strada illuminata a giorno dai lampioni, lei, l’eterea bellezza dalle corte zampe, condotta al guinzaglio dal padrone tifoso della Roma, che aveva giocato di martedì. Non è accaduto. Chissà se la incontrerò stasera. “il vero amore è come una finestra illuminata in una notte buia. Il vero amore è una quiete accesa” (G. Ungaretti)



Carmine Tedeschi