venerdì 12 febbraio 2016

"LA SETTIMANA INCORG" - Il terrore è un apostrofo nero tra le parole "vet" e "rinario"

Per noi cani, la parola “benessere” fa l’amore con “abitudine”. Se ci è consentito ripetere, a orari fissi, attività che stimolano la mente e il corpo, prima di tornare a sonnacchiare beatamente, siamo soddisfatti. Ci godiamo così una felicità parca, mite, senza eccessi, ma che ha il pregio di non affondare mai nelle onde dell’effimero e dell’irraggiungibile.
Un’arte del vivere quotidiano alla ricerca di piccole gioie, dolci attenzioni, carezze leggere, in attesa di bagnare il pelo tra i prati croccanti di ghiaccio e ammantati della rugiada del mattino, rincorrere la palla su uno spelacchiato campo di calcetto al pomeriggio, inseguire le canesse alla sera, mordicchiare il pezzetto di mozzarella che furtivamente viene passato dalla mamma durante il pranzo, saltare sulla mano del padrone mentre porge un biscotto, scodinzolare a chiunque dia l’impressione di profumare di simpatia, poltrire 10 ore filate accanto al letto di chi ci vuole bene.  Io dico che se gli umani prendessero esempio da noi e si imponessero di ritagliare almeno una fetta di giorno per i piaceri, per gli affetti di sempre, per le passioni che bruciano nell’animo, forse, vivrebbero meglio.
Preso atto di quanto scritto sopra, che nemmeno ho ben capito, esaurita la mia carriera di filosofo da social network, faccio notare come qualsiasi cosa in grado, anche potenzialmente, di deviare dal normale scorrere dell’esistenza, turba, inquieta, allarma un cane, specie se nato fannullone e timoroso pure delle campane della Chiesa del villaggio. E ogni riferimento alla mia pelosa persona non è per nulla casuale. È sufficiente che il padrone non vada a lavorare, per farmi rizzare le orecchie. Giusto ieri, dopo pranzo, l’umano, anziché mettere a tracolla la borsa di pelle, si è seduto in poltrona. Con fare guardingo, quasi danzando sulle corte zampotte, mi sono andato a nascondere in quell’angusto angolo di salone che ho scelto come cuccia. Allungato sul freddo pavimento, ho ascoltato qualsiasi cosa la famiglia dicesse e controllato di sottecchi ogni movimento della casa.  Non riuscivo a dormire:
respiravo un odore marcio come quello che, alla fine del temporale, emana una città zeppa di ciminiere che sputano veleno nell’aria. Qualcosa sarebbe successo di lì a poco. Ne ero certo. E, infatti, alle 15:45, il padrone ha urlato: <<Orsù, Luppolo, andiamo. È ora>>. quindi, ha aggiunto, abilmente adoperando il giamaicano antico <<ya ya ya ya ya yamm>>. Non ho raccolto la sollecitazione. Al contrario, mi sono fatto così piccolo da imboscare le zampe tra le maglie del lanoso e folto pelo. Non è bastato. Sono stato invitato a non fare ciance. Per tutta risposta, ho voltato lo sguardo verso il muro portante. Nonostante la facessi pendere come il braccio del Marat di David, l’insensibile umano mi ha sollevato la testa. Fattosi forte, quel pusillanime, del guinzaglio in funzione di leva, ha tentato di mettermi in piedi a mo' di macellaio che appende un quarto di bue. Illuso!!!! Avrebbe potuto anche rompermi la noce del capocollo: non avrei fatto una piega. Allora, sono stato preso in braccio. Non bastò; non appena le unghie raschiaron lo nudo terreno, caddi come corpo morto cade. Sbuffando come un boiler di ghisa per il nervosismo, il bulletto che si atteggia a capobranco è stato costretto a condurre un sacco di patate fino al cortile. Lì, inaspettatamente, ha lanciato una palla da tennis nel vuoto. Per la gioia, l’ho addirittura riportata indietro. Ahimè, un altro tiro non c’è stato: sono finito sul sedile posteriore di una macchina. Il viaggio è durato pochi minuti. Sceso, ho fatto dieci passi verso l’ignoto. Quando ho visto la porta bianca e la figurina Canini dello schema del gioco “tris” stilizzato, ho finalmente capito a cosa mi stesse conducendo l’ineluttabilità del destino: a una visita dal veterinario. Ho cercato di ribellarmi agli avversi numi tirando la zampa a mano e facendo un flash mob in solitaria. Non è bastato. Il debole coi forti, forte coi deboli mi ha trascinato, con fare sbrigativo, in sala d’attesa. Intorno a me, uno scenario desolante di colleghi rintanati sotto le sedie e di gatti intenti a imitare l’uomo Ragno sulla rete dei trasportini. Respirando a fatica per la paura, mi sono messo in un angolo. In silenzio.
Ho schivato gli spassi, fatto comunella solo di cortesia con una labradoressa, non ho accettato né carezze né caramelle dagli sconosciuti, anche perché la mamma mi ha detto che non si fa perché ci può stare la ddddroga. Solo quando ho sentito la porta d’ingresso aprirsi, mi sono rianimato: volevo tentare una disperata fuga. Non ho fatto in tempo. Una voce fioca di donna mi ha chiamato: <<Vieni, Luppolo>>. Nella stanza dolente, prima di tutto, è stata richiesta la prova del peso, manco fossi un pugile. Ho presentato istanza di opposizione e sono scappato via dalla bilancia. Il simpaticone di casa mi ci ha rimesso su, io ho incrociato le zampe per protestare pacificamente contro quella che ritenevo una violazione dei diritti miei, dei biscottini e dei salamini. Sono scoppiati tafferugli con gli assistenti veterinari. L’hanno avuta vinta loro. Al terzo tentativo, bloccato a fatica da due robuste mani, la registrazione di un inutile dato è andata a buon fine. Mi hanno allora traslato sulla sedia gestatoria di metallo sulla quale si fa la visita. Respirazione buona, funzioni vitali nella norma, gioielli di famiglia che hanno studiato, corpo tremante come una campana tibetana dopo essere stata percossa da un Monaco che alla meditazione preferisce il Kung fu. Sulla temperatura corporea non riporto i dati precisi perché le modalità di misurazione sono macchie indelebili sulla dignità di un cane reale. Ma non era ancora finita, ahimè. Anzi, il momento veramente impietoso sarebbe arrivato di lì a poco. Dovete sapere che in gioventù ho sofferto per un grave otite, sconfitta poco prima che diventasse irreversibile. Per mesi, ho camminato con la testa piegata sul lato destro del corpo. Degli strascichi di quel periodaccio ne risento leggermente ancora adesso: specie in situazioni di stress, tendo ad atteggiarmi come ubriacone della sesta classe vittoriana dopo un venerdì nel pub più fumoso di Londra. L’apparato vestibolare, capirete bene, è la mia kriptonite, il mio zampone d’achille. Quando l’uomo col camice e lo stetofonendoscopio ha sfiorato il condotto uditivo destro non ho potuto fare a meno, quindi, di guaire di un dolore atroce, struggente, angosciante, lancinante. Immaginate, poi, la reazione alla vista dello spuntone di roccia che doveva conficcarsi fino alle profondità del timpano, per analizzarlo. Vi dico solo che al grido di “scegliete: o Luppolo o Barabba” ho tentato il suicidio lanciandomi dal catafalco. Sono stato salvato da una presa al volo degna del miglior Zoff. Una siringa di vaccino conficcata dietro la schiena ha completato il pomeriggio di strazi.
Sono tornato a casa per consumare il sonno dell’indignazione, in attesa della cena. Mi sono nutrito per sommi capi: gli effetti collaterali del vaccino mi davano un po’ di noia e rendevano ancora più insipidi di quel che già sono i croccantini. Gli umani, nel frattempo, friggevano e facevano saltare in padella del pesce.  Ho fatto capolino accanto alla tavola imbandita. La madre ha tentato di passarmi, di nascosto, una zampa di polipo unta d’olio. Il padrone l’ha bloccata prima che si sciogliesse in bocca. Lo stesso ha fatto per un rettangolo di seppia. A signor il papà ho domandato una striscia di baccalà. <<Indietreggia>>, ha intimato il di lui figlio.  Ho woooooooooooooffato per avere un po’ d’ananas, che scioglie i grassi. L’uomo del Monte ha detto “no”. Mi sono dovuto accontentare di un accenno di mela. Triste e stanco, ho ripreso la via del sonno nella cuccia artificiale dalla quale era cominciata questa narrazione di donne, cavallier, l’arme, gli amori, le scortesie, le gioie, i pesi, gli orecchioni, gli spuntoni, le audaci imprese, le bilance sulle quali vi svelo perché non volevo salire: temevo di essere ingrassato.
E, in effetti, da novembre ho guadagnato 700 grammi. Ora sono una bella porchetta di 14,9 kg, ideale come mascotte delle feste patronali del Centrosud. Per tale ragione, sono costretto a una dieta forzata, che mi priva di quello spicchio di parca felicità al gusto di biscottini al cacao, donati da una preziosa amichetta, e assaggi di prelibatezze umane. “Diman crocchette e noia recheran l’ore”. Sacrebleu!!!



Carmine Tedeschi

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