venerdì 29 aprile 2016

L’IDENTITA’ TROVATA (Le ennesime lettere di Jacopo Corgis)

Nel mio lento e svogliato passeggiare quotidiano, incontro tanti colleghi. Mi duole ammettere a me stesso che un po’ li invidio. La maggior parte di loro ha un fisico molto più prestante del mio. Il levriero Jack ha delle zampe così lunghe e sottili che, quando
corre, sembra danzare come un fiocco di neve nel turbine della bufera. Silvana la Dobermannessa ha una struttura così granitica da fare invidia alle cariatidi dell’Eretteo. Il Rottweiler Demon ha un volto tanto paffuto quanto quadrato, un corpo tanto possente quanto compatto che, nel momento in cui ci troviamo muso a muso, perdo la vis pugnandi da Masaniello del rione e mi nascondo dietro le gambe del padrone.  D’altronde, non potrei mai affrontarlo ad armi pari. Sono un pastore tozzo, goffo, compatto. Sculetto e ondeggio come un granchio sulla battigia, le mie orecchie fanno invidia ai ripetitori di Radio Maria, il mio pelo accarezza la terra e diventa poltiglia al primo scroscio di pioggia, di questi tempi assorbo forasacchi come l’aspirapolvere di casa risucchia i lasciti della mie esperienze di vita. “La diversità è bellezza”, si suole dire. Condivido. Però, se mi regalassero dieci centimetri di zampe, un
posteriore meno a panettone, dei padiglioni auricolari meno aguzzi, non mi lamenterei. Tutt’altro. Almeno, eviterei il dileggio. Sì, purtroppo, vengo sovente ischerzato per le mie forme. Pensate, appena accedo in un bar del natio borgo, flotte di avventori mi danno un benvenuto di tal posta:<<É arrivato il camion della birra! Il CAMION DELLA BIRRA! Vieni, che ci mancava>>. Avete capito, gente? Mancava la birra, non io, non il mio sguardo d’amore, non la mia coda che ondeggia ad andante allegro.  Un altro oste, invece, più dignitoso, mi appella semplicemente “la corriera”. In città, la situazione non è poi tanto migliore. Per gli abitanti del capoluogo, sono una salsiccia, un torcinello (specialità molisana con interiora di carne), un tocco di legno per il camino nella notte di Natale, una baguette coi peli. La definizione che più mi ha ferito
resta comunque, “il cane stesscion vuegon”, affibbiatami da un venditore ambulante di scarpe durante una festa patronale. A queste doglianze strutturali, si accompagnano, ahimè, delle gravi problematiche psicologiche che, col divenire dell’età adulta e la perdita della spensieratezza distratta della fanciullezza, stanno emergendo prepotentemente. Seppur iscritto all’Università Can’ Foscari (l’anagrafe canina mi stava stretta), seppur nato “Morning Thunder” e poi destinatario di un nome d’arte da ubriacone del venerdì di un fumoso pub londinese, non ho un' identità definita. Sono un corpo estraneo in società, mi muovo in essa come  nebbia. Nessuno mi riconosce, nessuno sa da dove provengo, nessuno è consapevole del rango altolocato che mi appartiene, nessuno sa che razza di cane sono. Eppure, sono un pastore reale, nato da nobil stirpe, con cugini che dormono a corte della più potente e influente monarchia del mondo, con una servitù umana a loro totale servizio. E non passo certo inosservato, anzi, il mio peregrinare è accompagnato da una miriade di sguardi che, altezzoso qual sono, volentieri non incrocerei. Passano,
transitano  gli occhi del volgo; si posano di sottecchi su di me. Poi, quando sono a distanza di sicurezza, una voce bisbiglia:<<É un volpino>>; l’altra replica:<<No. È un bassotto a pelo corto>>; infine, in un virtuosismo di tesi, antitesi e sintesi: <<Ah è un incrocio di tutti e due. Sarà un esperimento>>, oltre a considerazioni più generali, ignoranti e sciocche sui cani di razza e su chi li acquista, manco fossero gangli malati di questa società. Credetemi, in quei momenti, ancor di più vorrei essere il levriero Jack per saltare e assaggiare delle caviglie. E pure il padrone, penso, non disdegnerebbe di avere canini e molari più affilati. Qualcuno, per fortuna, ha il piacere di fermarsi a domandare informazioni. <<E questo cosa è?>>. <<É un corgi>>, <<Ah, un Corgi. Ma va a caccia?>>. Voilà, che sagacia! Sì sì, come no. Ogni tanto prendo il fucile, indosso la mimetica e me ne vado per boschi  alla ricerca di quaglie, beccacce e piccioni. I terzi, a dire il vero, li inseguo pure in città. Mi attraggono. Non so perché. Purtroppo, in due anni e sei mesi di tentativi, non sono mai riuscito ad agguantarne uno.
Insomma, non ho una identità, sono un canide senza patria e senza razza, uno Jacopo Corgis o Woooooooooooffis dei tempi che vivo. Sento un profondo senso di sradicamento, di estraneità, sono un forestiero in questo paese, un eterno esule. 
“In nessuna parte di terra mi posso accasare. 
A ogni nuovo clima che incontro 
mi trovo languente 
che una volta già gli ero stato assuefatto 
E me ne stacco
sempre straniero
Nascendo tornato da epoche troppo vissute
Godere un solo minuto di vita iniziale
Cerco un paese innocente”.
Quanto mi piace il “Girovago” di Ungaretti. Io mi sento come lui. E mi domando se la mia condizione rifletta quella dell’umanità, in tante calamità di tempi. Cosa siamo?
Abbiamo, o non, gocce di certezze su questa terra che galleggia nell’ instabilità perenne? O viviamo un eterno presente precario di affetti, di lavoro, di valori? Mangiati da una realtà virtuale che sempre più crediamo reale, abbiamo perso il piacere del bello, il gusto delle amicizie, il sapore del semplice, vero amore. Viviamo di apparenze, siamo obbligati a  vestirci di impeccabilità non richiesta, di seriosità non dovuta, freniamo la nostra vita davanti alle paure ed alle convenzioni. Siamo bravi a scrivere che la nostra patria è il mondo, che dobbiamo accogliere, sintetizzare le diversità e vivere la nostra personalità dentro di esse, ma poi costruiamo muri democratici di granito, confini aperti di filo spinato, ghetti cosmopoliti di coscienze, ponti di latta. 
Chiusa questa parentesi di pensieri in libertà, torno a esternare il disagio interiore e, nel rispetto delle prescrizioni di questa rubrica, lo contestualizzo in accadimenti del fine settimana appena trascorso. Il pranzo mi è stato servito con un’ora di anticipo rispetto all’orario CAN-onico. Dovevo affrontare un viaggio in macchina e il padrone aveva letto che è d’uopo tenere per almeno 2 ore il cane a digiuno, prima della partenza. Bene ha fatto. La strada percorsa non è stata delle più agevoli. Lasciata la grande Panamolisana, infatti, siamo finiti in un dedalo di curve vorticose, incroci senza segnali, asfalto a gruviera, rampe micidiali, discese ardite e le risalite, su di un cielo coperto e temporalesco e intorno a noi il deserto di paesi dimenticati da Dio e dagli uomini, con panchine solitarie, botteghe chiuse, case di calcinacci, terre incolte, campi di calcio
invasi dalle erbacce, pompe di benzina abbandonate dopo l’ultimo bombardamento alleato, pale eoliche a dominare una valle di solitudine e silenzi. Alle 16, siamo finalmente arrivati in un ameno borgo di 300 anime, situato sul cucuzzolo di una collina. Nonostante fosse tanto dismesso da ospitare un campanile senza Chiesa, distrutta dal tremendo tremuoto del 1805 e mai più ricostruita, giovani brillanti e amministrazioni lungimiranti avevano organizzato un eccellente festival dedicato alla street art e cittadini avveduti avevano ben volentieri consentito che le pareti delle loro case diventassero cornici per dipinti di noti artisti, italici e non. Un quadretto di mondo, inumidito dalla pioggia e ingrigito dal decennale abbandono, si era così trasformato in una tavolozza di colori vivaci, di musiche a cielo aperto, di genti festanti, provenienti da ogni dove. Speravo, quindi, che qualcuno mi riconoscesse, mi identificasse come un pastore gallese del Pembrokeshire, confidavo in un mentore che mi indicasse la via del mio essere.  Il primo ad avvicinarsi è stato un autoctono sulla sessantina. Mi ha analizzato a fondo, animando in me speranze. Il cuore mi bussava alla gola. Stravolto dalle emozioni, ho allungato le zampe verso di lui, in segno di sottomissione eterna. Ho pensato:<<finalmente è arrivato colui che mi darà un Nome>>. Invece, ha domandato al padrone, adoperando l’idioma del borgo:<<uè stu cuose è buon pe la caccia. Te ru vuò venne?>> (la saluto e mi pregio di affermare, con cognizione di causa, che questo quadrupede ha le stimmate del cacciatore. Desideri cedermelo, dietro congruo e concordato prezzo di vendita?). Sacrebleu! L’umano, nonostante ogni tanto minacci di mettermi all’asta su ebay, ha declinato frettolosamente l’offerta. Meno male. Ma poi, secondo voi, sono veramente in grado di stanare e catturare sguscianti prede? Mah. Qualche ora dopo, mentre ondeggiavo per scendere un vicolo di scalini, ho visto una donna. Veniva in senso contrario al mio. Quando ci siamo trovati difronte, lei ha preso a blaterare come una cornetta che, dall’altro capo, è occupata: <<Tu tu tu tu tu tu tu>>. <<Sì, è libero. Risponda dopo il wooooffare acustico>>. <<Tu tu tu tu tu tu sei l’animale che usa la Regggina>>. Sì, certo. Sua maestà mi usa, mi adopera come cattura polvere, come paraspifferi, come poggiapiedi per le sue gambe stanche di vecchiaia. Escludo, invece, le mansioni di cacciatore.  Povero me! E non era ancora finita. Al calar della
sera, ero stanco. Gli infiniti alti gradini, la pioggerellina insistente, l’umidità penetrante mi avevano invaso. C’era soltanto un’ultima parete da visitare. Era così ben truccata che mi sono messo volentieri in posa per una foto. Mentre facevo per andare via dal set, da un angolo di strada è apparso un uomo. Era dinoccolato e smagrito, il volto pallido sovrastava capelli degni di Alice Cooper nei periodi di maggiore spolvero. Portava un giubbino di jeans con le maniche che pendevano fino ai gomiti, delle Superga di colore blu. Fumava una Marlboro. Mi ha visto. E ha osservato, ad alta voce:<<ooooooooooooooooh, ma tu guarda. Un VUELsce Gorgi>>. Non potevo crederci. Mi aveva identificato, riconosciuto, con apprezzabile precisione, mi aveva conferito l’identità che tanto languivo. Ahimè, la gioia è durata poco. Ho scoperto che quell'uomo era il VUETerinario condotto del paese. Proprio lui. Oh, povero me, solo, mesto e lasso in questo mondo. Nemmeno gli esperti del settore, pur riconoscendomi, riescono ad  apostrofarmi  con l’esatta dizione. Devo comunque osservare che non ho tratto dall’avvenuto riconoscimento, seppure impreciso, l’appagante piacere che mi aspettavo da sempre. Anche l’umano se n’è accorto dai miei occhi. Fluttuare per le strade alla ricerca del mio io, urtarmi di fronte agli zotici che non sapevano pronunciare il mio nome, in realtà, non era poi così male. In questo spazio privato di esistenza  voglio custodire i miei segreti, le mie paure, i miei misteri ed essere libero di crescere senza temere di dover rientrare in una categoria universale che smorza la pazzia di essere autentico. Siamo creature che vivono nella singolarità. Non abbiamo identità se non quella con cui ci firmiamo o con cui riusciamo a sorridere, tra noi e noi.


Carmine Tedeschi


domenica 10 aprile 2016

Diario di una CORGImamma 2° capitolo

Mi ero ripromessa di scrivere presto un nuovo capitolo nel mio diario di CorgiMamma, la realtà è che mi ero dimenticata di quanto fosse impegnativo seguire una piccola banda di monelli che dormono sempre meno e richiedono nuove attenzioni ogni giorno che passa.
Una volta aperti gli occhi i piccoli hanno letteralmente preso vita. Pochissimi giorni, giusto il tempo di capire come funziona la questione, e già zampettavano allegramente all’interno della cuccia, dando vita a quelli che erano i primi giochi, goffi e teneri allo stesso tempo. Le bambine adesso hanno più o meno libero accesso alla cassa parto, Lia è un tesoro con i cuccioli, attenta e premurosa, Giorgia invece è ancora piccolina per cui la mamma non la lascia mai da sola con loro, vorrebbe prenderli in braccio ma diciamo che deve ancora capire bene come si fa e quando è in cuccia assieme a noi non si contano i “No Giorgia, non in braccio!Solo caro caro!” ma l’effetto sgridata funziona si e no per qualche secondo e siamo di nuovo punto e a capo


Bed & Breakfast corgino 
Oggi è il 21 marzo, tra due giorni i piccoli miei e di Ribot compiranno un mese e la mamma ha deciso di presentare loro la primavera approfittando di una giornata particolarmente bella. Ha steso un telo di stoffa in giardino e due alla volta li ha portati fuori, le bimbe sono già li’, trepidanti che li aspettano. La reazione di ciascun cucciolo è diversa, Eep ha preso ad ululare cercandomi, quando sono andata a consolarla ha fatto un sorriso corgino ed è andata incontro ai fratellini, Pascal, Olaf e Bolt si sono riuniti a formare un unico agglomerato di pelo prima di prendere ognuno la propria strada spinti dalla curiosità, Merida è rimasta seduta ad osservare il vuoto per quache minuto e poi è partita decisa verso l’erba, è stata la prima a superare la barriera del telo, Flynn Rider e il dolcissimo Arlo invece sono rimasti vicino a Lia a giocare come se non fossero in un ambiente tutto nuovo ma come se invece fossero al solito posto giochi dentro la cassa parto. A conti fatti direi che sono molto soddisfatta di come abbiano reagito i cuccioli. Tempo nemmeno mezzora ed erano tutti collassati, è stata una vera e propria impresa questa uscita!



Cuccioli 

E’ passata solo una settimana e ormai il giardino non ha più segreti per i cuccioli che diventano ogni giorno più intraprendenti e curiosi, andando ad esplorare tutto il perimetro, mettendo il musetto sotto ai vasi delle piante a riposo e assaggiando più o meno tutto quello che capita loro a tiro, Anita e Giorgio hanno trasformato la sabbiera delle bimbe in una casetta, ne approfittano e la fanno esplorare anche ai cuccioli, la difficoltà più grande è che il punto di accesso è costituito da una tavola di legno fissata a mo di rampa scivolo e i cuccioli si sentono instabili, c’è chi si lascia trasportare lentamente dalla forza di gravità e chi invece ci si butta a capofitto, poi ci sono i tontoloni, o magari gli audaci, che sfidano l’altezza e si lanciano dalla bellezza di venti centimetri di altitudine atterrando in modo poco aggraziato sul terriccio umido davanti alla neo casetta.


Eep rotola sfidando i 20 cm di altezza...
Passa un’altra settimana, i miei piccoli ora hanno 40 giorni ed è arrivato per loro il momento di conoscere qualcuno di nuovo, la mamma ha deciso di presentargli quello scatenato di Persil, io sono un po’ titubante, tengo la testa ben sollevata, le orecchie dirette in avanti pronte a captare anche un singolo fiato di uno dei cuccioli che non dovesse gradire le sue attenzioni e se non bastasse ogni tanto mi faccio sfuggire un “Ouuurrrrrrrrr” per ribadire la mia presenza. Persil al suo solito si tuffa in giardino come se non uscisse da settimane, ovviamente era uscito anche pochi minuti fa, prima che Anita mettesse fuori i cuccioli, in modo che si sfogasse un po’ e lasciasse in giardino il suo odore. Tempo sprecato dal punto di vista dell’entusiasmo “SI ESCEEEEE” perché, appunto, si è fiondato fuori dalla porta letteralmente volando. Appena si è accorto della presenza dei cuccioli, che fino a stamattina aveva sempre e solamente scorto dentro la cuccia quando ci passava davanti per uscire, si è bloccato ed ha cambiato atteggiamento, Flynn Rider e Olaf sono stati i primi ad avvicinarsi, li ha annusati un attimo e poi è tornato ad essere il solito Persil invitandoli al gioco. Visto che conosco bene i suoi modi mi sono spesso frapposta tra lui e i cuccioli, sono ancora troppo piccoli per giocare a modo suo! L’eccitazione per aver finalmente conosciuto i cuccioli lo ha portato a correre in modalità proiettile impazzito ottenendo come unico risultato quello di far ridere le bambine mentre i cuccioli lo guardavano spiazzati.
La durata delle batterie dei cuccioli inizia ad essere di giorno in giorno maggiore, se il primo giorno di primavera hanno resistito si e no mezzora, oggi con Persil e anche dopo il suo rientro in casa hanno giocato per oltre un’ora. 


"Ouuuuurrrrrrr Persil!!!!"
Sguardi d'intesa tra i tricolore
Iniziano ad essere grandi, mangiano le loro crocchette ammorbidite nell’acqua tiepida già da qualche tempo eppure appena possono, almeno tre o quattro volte al giorno prima o dopo un pisolino, iniziano a spintonarsi tra loro per riuscire ad accaparrarsi una buona postazione alla latteria "da Ambra, solo latte di prima qualità" ed io mi sciolgo…
Poi pero' scappo a zampe levate non appena diventa insopportabile sentire tutti quei dentini affilati che torturano la suddetta latteria. Ma per loro, proprio come ogni Mamma, farei questo ed altro.

giovedì 7 aprile 2016

"LA SETTIMANA INCORG" - La Banda del Borgo

Noi cani abbiamo sensi molto sviluppati e una sensibilità che ci consente di carpire qualsiasi variazione nell’usuale fluire dell’esistenza. Se, mentre sonnecchio, pancia all’aria, vicino al letto del padrone, percepisco rumore di abiti che vengono piegati, di scarpe che emergono dalle custodie, di scatoloni con le ruote che vengono riempiti fin quasi a esondare, capisco che sta succedendo qualcosa di diverso in casa e inizio a fremere. Presto si partirà.
Con l’arrivo della primavera, la destinazione è quasi sempre la stessa: Monteroduni. Si tratta di un piccolo borgo del Molise, arroccato su una collina e dominato da un maestoso e avido castello, edificato nel Medioevo, dalla cui torre più alta si gode un panorama mozzafiato di aguzze montagne che precipitano su una sterminata pianura di campagne ubertose, perennemente tinte di verde e chissà se pure un po’ inquinate dai rimasugli, portati dal Volturno, che le solca, della terra dei fuochi. La mia famiglia ne ha una. È il posto che preferisco nel mondo.  Quando, dalla macchina, mi rendo conto che sto arrivando, prendo a wooooooffare così intensamente che il padrone, se assorto nei suoi pensieri di pilota, rischia di avere una sincope per lo spavento. Nel giovedì che precedeva la Pasqua, mi sono quasi catapultato fuori dalla portiera per la fretta di fare una corsa tra le terre ancora spoglie di ortaggi e dagli alberi di ciliegio ai primi, timidi fiori. Il capo mi ha raccomandato calma e decoro. Ha addirittura posto il divieto di attraversare una stradina che conduce ai campi prossimi al fiume. <<Fermo>> ha ripetuto più volte, con voce decisa. Ho fatto finta di non sentire. <<Uèèèèèèèèèèèèèèèè>>, ha urlato, una sola volta. Spiacente, ma il sottoscritto ha avuto problemi alle orecchie in gioventù e non è colpa sua se ogni tanto ricade nella spirale del fosco male. <<Te mene nu punie, farabutt>> (ti assesto un cazzotto, briccone), ha minacciato. Io ho deciso di andare alla pugna. Insubordinazione.  Con le corte zampotte ho accelerato, fino a tuffarmi in un mare di fango, poltiglia, cubetti di terra ruvidi come il cemento armato, straccetti d’erba. Sono riemerso che sembravo un bassotto. Della prevedibile reazione del padrone non mi sono nemmeno curato.
Anzi, avrebbe dovuto ringraziarmi perché non mi sono gettato nel fiume, come accadde un’estate faaaaaaaaaaaaaa. Era un giorno di quel caldo feroce e siccitoso che sempre più spesso ci fa compagnia nel tempo del solleone. Dannati cambiamenti climatici. Pestavo e mangiucchiavo delle fragole. D’un tratto, scorsi un collega, tozzo e panciuto come me. Non so da dove provenisse. So solo che aveva invaso il territorio. Dovevo impartirgli una lezione. Partì un lungo inseguimento. A causa dell’afa, io, con la lingua, raschiavo la terra; il padrone, con un fil di voce, ansimava le stesse minacce sopra citate. In prossimità di un fatiscente ponticello danzante sull’acqua, ero vicino al briccone più di Achille alla tartaruga. Il poveraccio diede un ultimo, disperato strappo. Io, furbo come una faina scaduta, provai a uccellarlo. Invece di seguire la strada, spiccai un salto degno di un canguro, da una sponda all’altra, con l’obiettivo di saltare al collo della preda. Purtroppo, non sono un marsupiale australiano bensì un panciuto gallese, che si crede grande e atletico, ma che è, in realtà, una stufetta a gas con la coda. Caddi, come corpo morto caddi, nelle moderatamente chiare, fresche e dolci acque del Volturno. Mentre ringhiavo furiosamente al cielo, venni tratto in salvo dal padrone e sottoposto all’infamia di una doccia fuori tolettrice e fuori stagione. Spiacevoli ricordi, azioni malsane, delle quali, però, non mi sono mai pentito. Anzi, non esiterei a rifarle, se necessario. L’istinto di governare il territorio è insito nella mia pelosa persona. In quel di Monteroduni emerge ancor di più.
Il paese, infatti, si adagia su un minuscolo fazzoletto di roccia.  Un’unica strada lo solca. È uno spicchio di mondo in cui gli abitanti costituiscono una grande famiglia in cui nessuno si sente solo, in cui le voci di un vicolo si mischiano e si confondono con quelle degli altri, in cui vige la regola del dire “ciao”, “buongiorno”, “salute”, al più pivellino degli infanti come al decano dei residenti.
In un luogo così raccolto e ospitale, quando mi corico sul terrazzino chiuso che dà sulla strada, wooooooooooooooooooffo e minaccio chiunque osi avvicinarsi alla casa. In 2-3 scappano, altri fischiettano e mi appellano, pochi (per fortuna) arditi addirittura, udite udite, osano sfidarmi e allungare la mano al di là del cancello che protegge gli astanti dalla mia ferocia. La slinguazzata sulla mano che do è la giusta punizione per tanta insubordinazione. Va peggio ai colleghi di passaggio. Addirittura, li invito alla guerra, nella logica “sono randagi? Allora andassero a fare i propri bisogni a casa loro”, mutuata dal noto leghista Salvini, cui (dicunt) il padrone somigli molto.  Tanto, io sto al sicuro. Fossero pure mastodonti travestiti da pelosi, non potrebbero mai raggiungermi. Mentre passeggio con gli umani, invece, mi guardo bene dal fare il ribaldo.
Preferisco dedicarmi a sfiancanti corse nei giardini del Castello, godere la frescura delle strade di collina che fanno da confine tra la Campania e il Molise, giocare in un parco giochi dismesso vicino casa, approfittare della generosità della nonna che, nonostante le sue deboli mani di anziana, spezza sempre una crosta di pane raffermo e me la dona, per il solo fatto di esserle andato a fare un po’ di compagnia.
La vita, dunque, è frenetica, nel borgo, non ha un attimo di pausa. Così, alla sera, Morfeo mi abbraccia generosamente. Nella grande dimora di famiglia, lungi da questa baffuta persona adagiarsi accanto al letto del padrone. Luppolo ha una stanza tutta per sé che nemmeno la sua autrice preferita, Virginia Wooooooooooooooof, saprebbe descrivere in tutto il suo splendore fatto di ampli divani, coperte di pile, una finestra angusta per far filtrare la frescura dell’estate, mura spesse per isolare i rigori dell’inverno.  Capirete bene che mi godo delle dormite così lunghe e profonde da assopire l’animo di pastore e rendere poco stimolante il ravvicinato passaggio dei randagi che latrano alla luna.
All’alba sono già fresco, riposato, carico a molla per una nuova giornata di frizzi e lazzi. Purtroppo il padrone non c’è. È lontano tre gradini, più un piano di scale. <<Beh, lo raggiungi e ti fai portare fuori>>, voi mi direte. Non è così facile, ahimè. Quelle tre sporgenze di cemento sono un muro insormontabile tra me e la felicità. Un trauma, che non riesco a superare, mi impedisce di valicarle. Ero giovane, portavo ancora i baffi corti. Dalla mia stanza, avevo voglia di tornare in salone.  Purtroppo, le zampotte erano un po’ bagnate di pioggia. Affrontai le tre scale con troppo entusiasmo e feci un carpiato all’indietro degno di Tania CAN-otto. Da allora, arrivo ai loro piedi e mi arresto. Ho paura. E woooooooooooooffo disperato, io woooooooooooffo disperatoooooooo e non ho odiatoooo mai tanto la vitaaaa, tanto la vitaaaaaaa. Se non arrivano immediatamente i soccorsi, piango lacrime amare. Il padrone, per forza di cose, torna assistente e, con un occhio ancora chiuso dal sonno, ben prima dell’orario di uscita cittadino, è costretto a salvarmi e a donarmi la prima corsetta del dì. Nel lunedì post-pasqua appena passato, però, ho avuto un po’ di pietà di lui. Alle 7 ancora sonnecchiavo.
Purtroppo, un evento inatteso ha scosso la casa, e il paese tutto, dal torpore. Un colpo di grancassa, rullo di tamburi, schiaffeggio di piattini, il sismografo del telefonino a vibrare in assenza di tremuoto, versi strani di Maestro con bacchetta, poi urlo “evvvvvvvvaaaaaai sonaaaaaaaaaaaaa”, infine un’orchestra di 26 elementi in tripudio per “Mosè” e ammaliata da “Carmen”, che attrae pure il “Barbiere di Siviglia”, il cui Pensiero va’ comunque alla “Gazza Ladra”, senza scordarsi de “la bella Gigogin” che urla “Morte a Franz Viva Oberdan” mentre “La Cavalleria rusticana” imperversa e la fanfara suona l’inno di Mameli. Era il temutissimo complesso bandistico di Monteroduni - incubo per i residenti come la nuvoletta di Fantozzi lo era per l’impiegato e sveglia del Ferragosto, della Pasquetta e di qualche Santo Patrono locale - intenta a circumnavigare le mura, al seguito della processione che stava riportando la Madonna Addolorata dalla Chiesa Madre fino alla piccola cappella nella quale usualmente sta. Mi hanno fatto tanta paura quei suoni improvvisi e cupi. Se il padrone non mi avesse portato fuori, mi sa che mi sarei fatto sotto. È così cominciato, con un po’ di anticipo rispetto al programma, il lunedì di pasquetta, festa di picnic, scampagnate, banchetti pantagruelici vietati ai deboli di stomaco e spauracchio dei vegani. Anche io sono stato coinvolto nelle pappatorie. Grazie a irresistibili occhioni di avvilito che non mangia da cinquanta giorni, ho approfittato delle pietanze, arrostite su barbecue grandi come stendipanni e cotte in un tripudio di “bravo” e “olè” al sollevarsi delle fiamme di fuoco, figlie delle lacrime di grasso sulle braci. Rincasato, ho dormito il sonno della beata sazietà fino alle 8.
Non ho sentito nemmeno i familiari che preparavano le valigie per il ritorno nella città. Feste finite. Che tristezza. E cibi prelibati sospesi. Mercoledì, infatti, sono stato colpito da un forte malanno allo stomaco. Dopo due giorni di sofferenza, da ieri, va un po’ meglio. Temo comunque un fine settimana di patate lesse, riso in bianco, straccetti di petto di pollo. <<Devono ricostruirsi la flora e la fauna batterica>>, sento dire. Ora il papà taglia una fetta di pane caldo di forno e non allunga nemmeno una crosta; la mamma apre uno yogurt ai frutti di bosco e non mi regala il contenitore; il padrone si strafoga una pizza e il cornicione non va al legittimo proprietario; com’è triste il crepitio di una buccia, se un tocchetto di mela non arriva alla bocca. Almeno datemi un po’ di croccantini, per lassie
L


Carmine Tedeschi
 

sabato 2 aprile 2016

Persilleggiata primaverile

Aria frizzante tipica montana e un bel sole alto in un cielo blu come se ne vedono pochi, siamo fuori in giardino a giocare, le bimbe al solito travasano l’acqua da una ciotola all’altra passando obbligatoriamente anche su pantaloni e magliette, Cooper è steso in una posizione impronunciabile e io corro all’impazzata facendomi inseguire da Grinta schivando le piante di rose e i vari giocattoli sparsi sull’erba. E’ un peccato dover rientrare in casa ma la mamma oggi ha deciso che il tempo delle scorribande è finito e noi quadrupedi le diamo retta, più o meno diligentemente.

Sta vestendo le bimbe, probabilmente dovrà uscire. Uhmmm, spero sia quell’uscita di un’oretta che fa settimanalmente e da cui ritorna con borse cariche di deliziosi profumi e che spesso nascondono un pezzettino di pane tutto per me, ho già l’acquolina in bocca! Invece fa uscire di nuovo Grinta e Cooper, mi vieta di seguirli, mi infila il collare e mi mette in ingresso: oh oh, che ho combinato?! Sarà mica quel famoso viaggio che noi maschi temiamo tanto? Perché mi porta via da solo?
Sono un po’ sconcertato ed esco con un filo di sospetto da casa, orecchie dritte e naso acceso, di solito non facciamo esercizi a quest’ora e davvero sono nell’oblio. Pochi istanti e mi tranquillizzo vedendo spuntare il passeggino e il monopattino di Lia... Capperi!E’ una passeggiata tutta per me!



Scendiamo il sentiero di casa ed arriviamo sulla strada asfaltata, non la conosco bene perché solitamente prendiamo l’auto per spostarci e raggiungere posti ogni volta diversi, per cui  per me questa è una sorta di novità pur essendo a trecento metri dal giardino. Finalmente posso far capire a quel gigantone grigio argentato che abita sotto casa che non è l’unico maschio nei paraggi e mi soffermo a rimarcare la cosa ad ogni palo, se per caso poi c’è il profumo della beagolina che spesso ulula dal terrazzo dei vicini vale la pena lasciare un messaggio più completo.



Ci dirigiamo verso est, leggera salita, siamo completamente soli e io ho preso il ritmo del passo della mamma, Lia ci segue con il monopattino ma quando la salita si fa un po’ più pesante lo abbandona e lo rifila ad Anita che lo incastra in qualche modo nel passeggino. Inizio a sentire un odore nuovo, mai sentito prima di oggi, pungente ed invitante allo stesso tempo, si mescola alla perfezione con il profumo dell’erba e del fieno, avanziamo ancora qualche decina di metri e arrivo dritto alla fonte di questa nuova fragranza. Scopro che si tratta di una mezza dozzina di strani animali bianchi, uno di loro ha addirittura quattro orecchie, un paio delle quali è rigido, proteso verso l’alto e non ispira molta fiducia. Dentro quella che sembra una grande cuccia scorgo poi dei frugoletti bianchi tutti ammassati, loro si che sembrano simpatici, uno di questi si alza ed esce correndo incontro ai grandi, è un cucciolo e si mette a poppare avidamente dalla madre, io e le bimbe siamo incantati a guardare questa scena ma Anita inizia a spingere nuovamente il passeggino promettendoci che al ritorno ci saremmo fermati a salutare le caprette. Ah, quindi si chiamano caprette... Mi piacciono!

Sento un profumo nuovo

Il "mostro" con quattro orecchie
Facciamo giusto qualche decina di metri, oltrepassando la casa del proprietario delle capre e Lia inizia a saltellare indicando il pascolo alla nostra destra “Mamma!! Le vacche, le vacche!!! Guarda!”
Ohibo e cosa sono queste vacche adesso? So che a Grinta piace rincorrerle e sono molto curioso di scoprire se puo’ piacere anche a me. Mi sporgo sul ciglio della strada e guardo verso il basso, ci sono dei bestioni neri che scalpitano all’interno di un recinto, se inizialmente le caprette non mi avevano ispirato una grande fiducia queste vacche sembrano avere un cartello in fronte con su scritto “tenersi alla larga”, queste si prendono a testate e anche loro hanno il secondo paio di orecchie poco rassicuranti, ecco, forse il cartello lo appenderei li. Sembrano molto nervose, due di loro sono impegnate in quello che sembra un litigio testa a testa per decidere chi sia la piu' forte, ci mettono un grande impegno e una forza non da poco a giudicare dai solchi scavati con le zampe posteriori di una che scivolano indietro a causa della spinta dell’altra. Cose da pazzi, lo sanno tutti che per aggiustare le cose è sufficiente mettersi con la pancia bene esposta oppure far intravedere qualche dentino... Via via via, alla larga!




Proseguiamo lungo la strada e io sono un po’ su di giri dopo questo incontro, passo da una parte all’altra del passeggino e mi avventuro sul prato tagliato dall’asfalto, ci sono un sacco di profumi ed è irresistibile per me, cavoli, qui è passata una volpe, è lo stesso odore che sento spesso nei boschi! E qui c'e' addirittura un intero campo pieno zeppo di letame! Ma wow!!! Quanto vorrei rotolarmici dentro, Cooper e Grinta impazzirebbero! Lia chiede chi ha fatto tutta quella puzza, lei la chiama puzza, bah, Anita le risponde che si tratta della cacca delle vacche e che serve per far crescere meglio le piante che cresceranno in quel campo. Ok, adesso le vacche mi stanno piu' simpatiche! 



Puntualmente ogni tre o quattro metri mi avvinghio attorno ai pali della segnaletica per la neve, lo faccio di proposito perché cosi costringo la mamma a rallentare il passo e ammetto che un po’ mi diverte vederla alzare gli occhi al cielo.




Passiamo ad una strada leggermente più larga della precedente, si alzano delle barriere ai lati e mi accorgo che in questo punto il prato svanisce, non c’è più nulla, mi avvicino alla barriera e Lia lancia qualcosa sotto di essa, se fosse una crocchetta??? Con lo sguardo cerco invano tra i ciottoli, ci sono solo sassi ed acqua, nulla di interessante e no, fortunatamente non era una crocchetta.


 Ciao ciao forse crocchetta
La mia passeggiata procede piacevolmente, adesso la strada è in leggera discesa, dobbiamo fare un po’ di attenzione perchè di tanto in tanto passa una macchina e Anita ci fa spostare tutti sul ciglio dell’asfalto, alla nostra sinistra ora corrono le rotaie del trenino bianco e rosso che sta passando proprio adesso, lo seguo con lo sguardo fin quando scompare dietro una piccola baracca di legno. Ci avviciniamo a questa baracca e sento che la mamma da l’ok a Lia, “vai pure ma fai attenzione”, poi attraversa la strada seguendo Lia e accelera un po’ il passo, resto un  po’ indietro, attenzione a cosa? Non finisco nemmeno il mio pensiero che vengo letteralmente travolto da un rumore assordante “OOOOOOOOHHH-IHOHHHHOHOOO” e sento la terra tremare a ritmo di zoccolate. Resto paralizzato. C’è un animale enorme che mi fissa mostrando i denti e mi urla contro! Stiamo scherzando vero?! Dietro di lui poi ce ne sono degli altri, un esercito! Cerco di arrampicarmi sulle gambe della mamma sperando si sbrighi a portarci via ma lei ride e mi dice che posso stare tranquillo perchè l’asino non ce l’ha con me...Sti cavoli, andiamo via comunque???




Li abbiamo visti, ora possiamo andare via!!!!


Dopo che la coraggiosissima Lia, giuro che da oggi in poi la guardero con occhi diversi, ha dato un ciuffo d’erba all’asino piu piccolo, finalmente ci allontaniamo da loro, aiuto la mamma a tirare il passeggino giusto per farle capire che sono molto, molto contento di continuare la passeggiata e torniamo nuovamente sulla strada, tempo pochi minuti ed arriviamo alla meta del percorso. La missione di oggi era quella di andare a trovare un amico di mamma e papà che lavora in un posto pieno di piante e fiori, appena lo vedo gli faccio un sacco di feste, sapessi quante cose ho visto! Poi passa una ragazza e non voglio si ingelosisca per cui mi faccio coccolare anche da lei. Ci aggiriamo tra i banchi colorati, Lia riesce a farsi regalare tre vasetti di margherite rosa da piantare, a detta sua, nella sua cameretta, Giorgia si sgranchisce le gambe correndo dietro ad un gatto bianco e nero e la mamma  Finite le chiacchiere umane inizia il viaggio di ritorno verso casa, Lia e’ stanca per cui ci vuole più tempo per tornare a casa di quanto ce ne abbiamo messo per arrivare al garden, ma alla fine dopo essere ripassati a salutare gli asini (da lontano), le vacche e le simpatiche caprette, apriamo la porta di casa e le bimbe vanno a fare merenda, io torno in cucina assieme a Grinta e Cooper che mi passano in rassegna per capire dove sono stato per tutto questo tempo. Li lascio fare e nel mentre mi scappa uno sbadiglio, pochi minuti e crollo steso a terra in un sonno profondo...   

Tappa dalle caprette lungo la strada del ritorno.