giovedì 7 aprile 2016

"LA SETTIMANA INCORG" - La Banda del Borgo

Noi cani abbiamo sensi molto sviluppati e una sensibilità che ci consente di carpire qualsiasi variazione nell’usuale fluire dell’esistenza. Se, mentre sonnecchio, pancia all’aria, vicino al letto del padrone, percepisco rumore di abiti che vengono piegati, di scarpe che emergono dalle custodie, di scatoloni con le ruote che vengono riempiti fin quasi a esondare, capisco che sta succedendo qualcosa di diverso in casa e inizio a fremere. Presto si partirà.
Con l’arrivo della primavera, la destinazione è quasi sempre la stessa: Monteroduni. Si tratta di un piccolo borgo del Molise, arroccato su una collina e dominato da un maestoso e avido castello, edificato nel Medioevo, dalla cui torre più alta si gode un panorama mozzafiato di aguzze montagne che precipitano su una sterminata pianura di campagne ubertose, perennemente tinte di verde e chissà se pure un po’ inquinate dai rimasugli, portati dal Volturno, che le solca, della terra dei fuochi. La mia famiglia ne ha una. È il posto che preferisco nel mondo.  Quando, dalla macchina, mi rendo conto che sto arrivando, prendo a wooooooffare così intensamente che il padrone, se assorto nei suoi pensieri di pilota, rischia di avere una sincope per lo spavento. Nel giovedì che precedeva la Pasqua, mi sono quasi catapultato fuori dalla portiera per la fretta di fare una corsa tra le terre ancora spoglie di ortaggi e dagli alberi di ciliegio ai primi, timidi fiori. Il capo mi ha raccomandato calma e decoro. Ha addirittura posto il divieto di attraversare una stradina che conduce ai campi prossimi al fiume. <<Fermo>> ha ripetuto più volte, con voce decisa. Ho fatto finta di non sentire. <<Uèèèèèèèèèèèèèèèè>>, ha urlato, una sola volta. Spiacente, ma il sottoscritto ha avuto problemi alle orecchie in gioventù e non è colpa sua se ogni tanto ricade nella spirale del fosco male. <<Te mene nu punie, farabutt>> (ti assesto un cazzotto, briccone), ha minacciato. Io ho deciso di andare alla pugna. Insubordinazione.  Con le corte zampotte ho accelerato, fino a tuffarmi in un mare di fango, poltiglia, cubetti di terra ruvidi come il cemento armato, straccetti d’erba. Sono riemerso che sembravo un bassotto. Della prevedibile reazione del padrone non mi sono nemmeno curato.
Anzi, avrebbe dovuto ringraziarmi perché non mi sono gettato nel fiume, come accadde un’estate faaaaaaaaaaaaaa. Era un giorno di quel caldo feroce e siccitoso che sempre più spesso ci fa compagnia nel tempo del solleone. Dannati cambiamenti climatici. Pestavo e mangiucchiavo delle fragole. D’un tratto, scorsi un collega, tozzo e panciuto come me. Non so da dove provenisse. So solo che aveva invaso il territorio. Dovevo impartirgli una lezione. Partì un lungo inseguimento. A causa dell’afa, io, con la lingua, raschiavo la terra; il padrone, con un fil di voce, ansimava le stesse minacce sopra citate. In prossimità di un fatiscente ponticello danzante sull’acqua, ero vicino al briccone più di Achille alla tartaruga. Il poveraccio diede un ultimo, disperato strappo. Io, furbo come una faina scaduta, provai a uccellarlo. Invece di seguire la strada, spiccai un salto degno di un canguro, da una sponda all’altra, con l’obiettivo di saltare al collo della preda. Purtroppo, non sono un marsupiale australiano bensì un panciuto gallese, che si crede grande e atletico, ma che è, in realtà, una stufetta a gas con la coda. Caddi, come corpo morto caddi, nelle moderatamente chiare, fresche e dolci acque del Volturno. Mentre ringhiavo furiosamente al cielo, venni tratto in salvo dal padrone e sottoposto all’infamia di una doccia fuori tolettrice e fuori stagione. Spiacevoli ricordi, azioni malsane, delle quali, però, non mi sono mai pentito. Anzi, non esiterei a rifarle, se necessario. L’istinto di governare il territorio è insito nella mia pelosa persona. In quel di Monteroduni emerge ancor di più.
Il paese, infatti, si adagia su un minuscolo fazzoletto di roccia.  Un’unica strada lo solca. È uno spicchio di mondo in cui gli abitanti costituiscono una grande famiglia in cui nessuno si sente solo, in cui le voci di un vicolo si mischiano e si confondono con quelle degli altri, in cui vige la regola del dire “ciao”, “buongiorno”, “salute”, al più pivellino degli infanti come al decano dei residenti.
In un luogo così raccolto e ospitale, quando mi corico sul terrazzino chiuso che dà sulla strada, wooooooooooooooooooffo e minaccio chiunque osi avvicinarsi alla casa. In 2-3 scappano, altri fischiettano e mi appellano, pochi (per fortuna) arditi addirittura, udite udite, osano sfidarmi e allungare la mano al di là del cancello che protegge gli astanti dalla mia ferocia. La slinguazzata sulla mano che do è la giusta punizione per tanta insubordinazione. Va peggio ai colleghi di passaggio. Addirittura, li invito alla guerra, nella logica “sono randagi? Allora andassero a fare i propri bisogni a casa loro”, mutuata dal noto leghista Salvini, cui (dicunt) il padrone somigli molto.  Tanto, io sto al sicuro. Fossero pure mastodonti travestiti da pelosi, non potrebbero mai raggiungermi. Mentre passeggio con gli umani, invece, mi guardo bene dal fare il ribaldo.
Preferisco dedicarmi a sfiancanti corse nei giardini del Castello, godere la frescura delle strade di collina che fanno da confine tra la Campania e il Molise, giocare in un parco giochi dismesso vicino casa, approfittare della generosità della nonna che, nonostante le sue deboli mani di anziana, spezza sempre una crosta di pane raffermo e me la dona, per il solo fatto di esserle andato a fare un po’ di compagnia.
La vita, dunque, è frenetica, nel borgo, non ha un attimo di pausa. Così, alla sera, Morfeo mi abbraccia generosamente. Nella grande dimora di famiglia, lungi da questa baffuta persona adagiarsi accanto al letto del padrone. Luppolo ha una stanza tutta per sé che nemmeno la sua autrice preferita, Virginia Wooooooooooooooof, saprebbe descrivere in tutto il suo splendore fatto di ampli divani, coperte di pile, una finestra angusta per far filtrare la frescura dell’estate, mura spesse per isolare i rigori dell’inverno.  Capirete bene che mi godo delle dormite così lunghe e profonde da assopire l’animo di pastore e rendere poco stimolante il ravvicinato passaggio dei randagi che latrano alla luna.
All’alba sono già fresco, riposato, carico a molla per una nuova giornata di frizzi e lazzi. Purtroppo il padrone non c’è. È lontano tre gradini, più un piano di scale. <<Beh, lo raggiungi e ti fai portare fuori>>, voi mi direte. Non è così facile, ahimè. Quelle tre sporgenze di cemento sono un muro insormontabile tra me e la felicità. Un trauma, che non riesco a superare, mi impedisce di valicarle. Ero giovane, portavo ancora i baffi corti. Dalla mia stanza, avevo voglia di tornare in salone.  Purtroppo, le zampotte erano un po’ bagnate di pioggia. Affrontai le tre scale con troppo entusiasmo e feci un carpiato all’indietro degno di Tania CAN-otto. Da allora, arrivo ai loro piedi e mi arresto. Ho paura. E woooooooooooooffo disperato, io woooooooooooffo disperatoooooooo e non ho odiatoooo mai tanto la vitaaaa, tanto la vitaaaaaaa. Se non arrivano immediatamente i soccorsi, piango lacrime amare. Il padrone, per forza di cose, torna assistente e, con un occhio ancora chiuso dal sonno, ben prima dell’orario di uscita cittadino, è costretto a salvarmi e a donarmi la prima corsetta del dì. Nel lunedì post-pasqua appena passato, però, ho avuto un po’ di pietà di lui. Alle 7 ancora sonnecchiavo.
Purtroppo, un evento inatteso ha scosso la casa, e il paese tutto, dal torpore. Un colpo di grancassa, rullo di tamburi, schiaffeggio di piattini, il sismografo del telefonino a vibrare in assenza di tremuoto, versi strani di Maestro con bacchetta, poi urlo “evvvvvvvvaaaaaai sonaaaaaaaaaaaaa”, infine un’orchestra di 26 elementi in tripudio per “Mosè” e ammaliata da “Carmen”, che attrae pure il “Barbiere di Siviglia”, il cui Pensiero va’ comunque alla “Gazza Ladra”, senza scordarsi de “la bella Gigogin” che urla “Morte a Franz Viva Oberdan” mentre “La Cavalleria rusticana” imperversa e la fanfara suona l’inno di Mameli. Era il temutissimo complesso bandistico di Monteroduni - incubo per i residenti come la nuvoletta di Fantozzi lo era per l’impiegato e sveglia del Ferragosto, della Pasquetta e di qualche Santo Patrono locale - intenta a circumnavigare le mura, al seguito della processione che stava riportando la Madonna Addolorata dalla Chiesa Madre fino alla piccola cappella nella quale usualmente sta. Mi hanno fatto tanta paura quei suoni improvvisi e cupi. Se il padrone non mi avesse portato fuori, mi sa che mi sarei fatto sotto. È così cominciato, con un po’ di anticipo rispetto al programma, il lunedì di pasquetta, festa di picnic, scampagnate, banchetti pantagruelici vietati ai deboli di stomaco e spauracchio dei vegani. Anche io sono stato coinvolto nelle pappatorie. Grazie a irresistibili occhioni di avvilito che non mangia da cinquanta giorni, ho approfittato delle pietanze, arrostite su barbecue grandi come stendipanni e cotte in un tripudio di “bravo” e “olè” al sollevarsi delle fiamme di fuoco, figlie delle lacrime di grasso sulle braci. Rincasato, ho dormito il sonno della beata sazietà fino alle 8.
Non ho sentito nemmeno i familiari che preparavano le valigie per il ritorno nella città. Feste finite. Che tristezza. E cibi prelibati sospesi. Mercoledì, infatti, sono stato colpito da un forte malanno allo stomaco. Dopo due giorni di sofferenza, da ieri, va un po’ meglio. Temo comunque un fine settimana di patate lesse, riso in bianco, straccetti di petto di pollo. <<Devono ricostruirsi la flora e la fauna batterica>>, sento dire. Ora il papà taglia una fetta di pane caldo di forno e non allunga nemmeno una crosta; la mamma apre uno yogurt ai frutti di bosco e non mi regala il contenitore; il padrone si strafoga una pizza e il cornicione non va al legittimo proprietario; com’è triste il crepitio di una buccia, se un tocchetto di mela non arriva alla bocca. Almeno datemi un po’ di croccantini, per lassie
L


Carmine Tedeschi
 

Nessun commento:

Posta un commento