venerdì 19 febbraio 2016

"LA SETTIMANA INCORG" - Le Influenze dell'Amore


Ti scrivo, gentile Lucy, dal terrazzino di casa. Ormai passo il tempo mio primo qua, su questo rettangolo di ferro, ringhiere, mattoni. Unico amico è il vento da Sud che ulula, sbuffa sulle imposte, fa danzare le nuvole e trascina la mia palla preferita sotto al muso. Io la scanso. Non mi interessa giocare.
“Non tengo genio”, come dicono a Napoli. Da burocrate dello standard di razza, da pastore nei secoli fedele al di là dello stato d’animo, mi limito a svolgere il ruolo di guardiano del territorio: abbaio a chiunque fischietti o osi nominare “Luppolo” invano, seguo con lo sguardo qualsiasi figura umana di passaggio, intimo ai gatti di allontanarsi dall’ autovettura del padrone, monitoro le azioni di ogni collega che sfida il fato passandomi sotto i baffi. Ne vedo tanti di pelosi: alti come ciclopi o minuscoli come alette di pollo, vestiti di manto crespo e soffice come fiocchi di latte o dalla scorza liscia e dura come pietra di fiume, panciuti e lindi al guinzaglio dei padroni o trascinati di vita che raccattano avanzi d’immondizia e odorano di sporcizia e solitudine. Da un po’ di tempo a questa parte, nessuno di loro solletica il mio animo, nessuno si merita il diritto a una wooooooooooffata che non sia meramente formale. Non posso sprecare il fiato per un cane diverso da te, egregia Lucy. Mi manchi. È già giovedì, il guado di metà settimana è stato valicato, ma io continuo a voltarmi indietro e a guardare ai giorni che il mondo consacra al trionfo della comunanza d’affetti, dei cuoricini, dei baci, delle carezze, della parola più semplice e grandiosa che esista: amore. Venerdì scorso, per te, avevo addirittura accettato, dopo lo scempio della visita veterinaria del mercoledì, l’umiliazione del trattamento della toelettatrice. Non potevo presentarmi al tuo cospetto come l’ultimo degli zoticoni, trasandato, con le zampe lerce di fango e il petto a far da cattura polvere più dello Swiffer. Dovevo profumare di mughetto e fiori di bosco, volevo il pelo liscio come il piede di una donna appena uscita da una vasca di rose, la coda ritta e gonfia come uno stecco di legno avvolto dallo zucchero filato.
A ripensarci bene, ero proprio attraente: il volto cotonato di phon da poco passato, la zazzera bionda che fendeva la tramontana, le orecchie senza peli superflui, facevano di me un irresistibile adone monovolume. Ti saresti innamorata d’un sol colpo, mia cara Lucy. Saresti stata mia già quella sera e a San Valentino avrei steso un tappeto di stelle e salsicce all’ingresso della tua casa. Prima di cena, il sinistro e cupo sibilo del compagno vento mi sembrava una musica che sorrideva agli angeli, una melodia argentina suonata da un’arpista vestita di bianco e dai boccoli biondi. Perché debba essere per forza bionda e vestita di bianco non so, ma al padrone piace così. E io mi adeguo. Purtroppo, a tanta celestialità, facevano da contraltare cupi versi che giammai avevo udito prima: erano tonfi della voce, espettorazioni che, dalle viscere dei polmoni, risalivano fino alla superficie della bocca e morivano nel salone di casa, congedate dall’ epitaffio “e che casso”. Il padrone starnutiva, tossiva, i suoi occhi erano gonfi di lacrime che non nascevano dall’emozione di un pianto. Si trattava di una cosa che chiamano “influenza”, mia Lucy. Le donne raccontano che sui maschi ha un impatto devastante: basta che il termometro superi i 37,4 per paralizzarli in un letto di dolore, patimento fisico, sofferenza morale, dal quale riemergono, improvvisamente e temporaneamente, solo quando il pranzo della domenica è in tavola o la sveglia suona l’orario del campionato di calcio.
Il padrone, venerdì, con 37,3 periodici, registrati alle ore 20, ancora non era sprofondato nel buco nero del flagello ma ci si stava incamminando a passo di processione del Venerdì Santo; quel bastone di legno che usa per difendersi da eventuali attacchi di colleghi era diventato il sostegno della sua vecchiaia, affinché le gambe non cedessero sotto al peso della malattia.  Comprenderai benissimo, o mia bela Basutina, che l’uscita è durata il tempo necessario per l’espletamento delle funzioni vitali. Esauritele, ho dovuto riprendere la via della dimora. Al passaggio sotto al tuo portone, ho provato a sterzare. Invano. L’hanno avuta vinta prima l’umano, poi il sonno della notte. Mi sono ridestato all’alba, già voglioso di uscire. Il padrone, ahimè, registrava 37,5 gradi centigradi. Ha avuto solo la forza di aprirmi il balcone. Dal terrazzino dal quale ora scrivo speravo di vederti passare o, almeno, respirare un po’ del tuo odore, convogliato da raffiche di scirocco che dipanavano i gomitoli di nuvole e lasciavano filtrare un po’ di luce. “Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”, recitava una breve e superbamente fosca poesia. E io ero lì, imbiondito dall’astro, in attesa delle ore serotine. Ero convinto che, sostituito il malato con Signor il Papà, avrei goduto di una lunga passeggiata nella direzione indicata da Cupido. Alle 20:40 ho avanzato la prima richiesta. Nessuno mi ha dato retta. Al contrario, il padrone, riemerso un attimo dalle coperte di panno e fustagno, ha chiuso la porta della sua stanza, comunicando che non ci sarebbe stato per le successive due ore. Il papà, invece, mi ha pregato di attendere 45 minuti. Alle 21:31, 45 più un minuto di recupero, puntuale come un orologio svizzero assemblato in Corea, mi ha vestito di tutto punto, con addirittura il cappotto Barbour antipioggia, che sta a un pastore gallese come i Dirndl e i Lederhosen stanno all’Oktoberfest ein prosit ein prosit.
Ho varcato il portone a velocità di razzo e ultimato il curus bisognhorum in un amen. Sotto al tuo balcone, c’erano già tre colleghi randagi, ritti come statue di bronzo, che ascoltavano woooooooffanti lamenti. Non li ho degnati di uno sguardo, né li ho minacciati. Non ho avuto il tempo di farlo, ahimè. Alle 21:46, inizio del secondo tempo, genitore 2 ha fischiato la fine della mia gioia. Quando le urla vandaliche del padrone hanno sconquassato le mura domestiche e oscurato Annalisa Minetti come voce protagonista del Festival in onda sull’altro CANale, ho capito sia perché tu guaivi alla luna, sia perché a me erano state concesse solo briciole di aria aperta. Come diceva, più o meno, Blaise Pascal, “il cuore ha delle ragioni che il pallone non conosce”. C’era Juventus – Napoli in Tv. Niente altro contava per il masculo italico. Mi sono messo a dormire con il dispiacere nel cuore. Speranze e illusioni si stavano spegnendo al cospetto della cruda realtà. Restava solo la domenica, restava solo San Valentino. Era pomeriggio inoltrato. La luminosità di un giorno finalmente sereno stava lasciando già spazio al grigio di cumulonembi che avanzavano dalle montagne. Io, appena rientrato da una sessione di “acchiappa la palla”, dormicchiavo dietro le sbarre, nelle prigioni del mio cuore. D’un tratto, ho sentito una voce nota.
Ho aguzzato la vista. Eri tu, proprio tu, Lucy, che facevi per chiamarmi. Quanto eri bella. Al cospetto delle tue zampe corte e ossute le pozzanghere di terreno si trasformavano in specchi d’acqua celeste come il cielo d’altitudine in un giorno di solleone. L’asfalto si scuoteva al tuo passaggio e gli animali del sottosuolo risalivano dalle sue fessure per contemplarti. Il prato del giardino ribolliva e i ricci riemergevano dal letargo dell’inverno. I grilli affamati di sonno brumale deliziavano il tuo allegro cammino con dolci cori. A ogni abbaiata, gli stormi di rondini perdevano la via maestra e non si curavano più di dove volessero migrare. Lo sguardo languido ingentiliva anche l’animo del pastore più rude che si fermava ad ammirarlo, il corpo lungo e sinuoso scuoteva dal torpore anche il più appagato dei seduttori, il pelo biondo luccicava come un campo di girasoli, i mustacci fluttavano nell’aria leggeri come le corde di un violino. Sconvolto dalla passione, mi sono messo a correre e latrare così intensamente che, se avessero voluto immortalarmi in un video, avrebbero dovuto adoperare la Cavalcata delle Valchirie come colonna sonora. Non è servito a nulla. L’ “adduormete”, imperativo rafforzativo del verbo “ruorme”, mi ha fatto capire che il nostro appuntamento fatale si sarebbe limitato a uno sguardo fulmineo come un lampo, ma tonitruante d’amore come il tuono di quel temporale che, col padrone che delirava di un’ebola che addirittura solleticava i 37,7, ha obbligato la mamma a concedermi solo l’abC della Camminata. 
 

Sono passati quattro giorni da allora, mia preziosa, mia amata. La bufera ha spezzato rami e scoperchiato tetti, due fiocchi di neve hanno cantato il de profundis dell’inverno, una pioggia bagnata d’Africa ha arrossito questo giaciglio di cemento dal quale guardo l’orizzonte che il guardo non esclude e riempio un foglio di lacrime e inchiostro che presto ti spedirò. Non so dove sei ora, se ti sei già scordata di me o se mi stai pensando, se stai piangendo per me, se qualche volta respiri a fondo per sentire il mio odore, se ogni tanto poni la testa tra le ringhiere rosse per vedere al dì là del balcone e incrociare il mio sguardo, se pieghi la testa per percepire la mia abbaiata cristallina tra le tante ringhiate del quartiere, se alla sera mi senti tanto vicino da chiudere gli occhi col mio sonno, se sono per te qualcosa che non si può perdere. Io so che senza di te sono perso. Ora che il padrone si è ripreso dalla grave e perniciosa afflizione e parla di sé come un Lazzaro moderno, tornerò, ogni sera, a spingere le mie zampe verso il tuo portone, in attesa di incrociare le tue.
Te lo prometto. Parola d’odore. Non mi spaventeranno le intemperie, non avrò timore dei molossi e dei pastori di grande stazza che intenderanno approfittare del tuo estro, non la darò vinta agli umani che vorranno tracciare la via di casa senza regalarmi un minuto di beatitudine, non mi turberà il vento che infiammerà le mie orecchie malandate. È più forte di ogni patimento questa vampa d’amore che mozza il respiro, opprime il petto, paralizza le gambe, arroventa il cuore, brucia la mente. Solo tu potrai spegnerla, mia diletta.   
Corgilandia, 18.02.2015


Tuo Farfallino

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